Sant’Eufemia a Tricase
La Madonna del Gonfalone, la Maddalena e le lucertole
di Massimo NEGRO
Sotto un sole sadicamente infuocato, in uno dei fine agosto più assolati che si ricordino, in macchina mi dirigo verso il Borgo di S. Eufemia a Tricase. Superato Lucugnano in direzione di Alessano, poco l’uscita del centro abitato si incontra un incrocio con l’indicazione della meta pomeridiana: la cripta basiliana della Madonna del Gonfalone. Giungo un’ora prima che inizino le funzioni religiose, mentre i venditori ambulanti iniziano a sistemare la loro mercanzia ai margini della strada. Un po’ nei cofani delle macchine o sulle api, la maggior parte dei loro oggetti, cesti e terrecotte, poggiate per terra. E’ già giunta la banda e i poveri bandisti cercano di trovare riparo dal sole all’ombra di un pergolato di una casa vicina. Tentativo inutile viste le condizioni delle loro camice e il copioso sudore in viso.
Il 22 agosto in questo piccolo borgo del leccese si festeggia la Madonna del Gonfalone. Una festa antica, non solo religiosa ma anche civile, perché nei secoli passati era proprio in occasione del 22 agosto che nel borgo veniva amministrata la giustizia da parte del nobile del luogo o del capitano di giustizia. Quella giornata continua ad essere ricordata ancora oggi; oltre alle funzioni religiose pomeridiane e alla piccola processione per le strade del borgo, la mattina si svolge anche una fiera. La cripta si trova poco fuori del centro abitato, sulla sommità di un colle. Interamente scavata nella roccia tufacea, la cripta risale al IX secolo circa.
Il sito appartiene all’antica storia delle presenze dei monaci basiliani (dal loro fondatore San Basilio) in Terra d’Otranto. In fuga dall’Oriente a seguito dell’editto dell’imperatore bizantino Leone III Isaurico (726 d.C.), con il quale ordinava la distruzione delle immagini sacre e delle icone nelle terre a lui sottomesse, questi operosi monaci trovarono rifugio nel sud Italia, in grotte naturali o scavando nel tufo, creando le loro dimore e luoghi di preghiera che impreziosirono con magnifici affreschi. Questi luoghi crebbero progressivamente di importanza nel tempo, diventando centri di aggregazione non solo religiosa ma anche sociale. Questo accadde in particolare dopo l’anno 843 quando grazie all’imperatrice Teodora terminò la furia iconoclasta scatenata dell’editto e i monaci poterono operare con tranquillità senza timore di rappresaglie.
Il sito si ritiene che nasca come “laura” (che sta a significare, nel nostro caso, monastero, colonia monaci) per poi divenire “grancia” (fattoria-convento) dipendente dall’Abbazia di S. Maria del Mito.
Vi è un doppio accesso alla cripta. Il primo conduce direttamente dinanzi all’altare principale innalzato nel bel mezzo della cripta. Medea definisce questo locale di accesso come “cappella” e, intorno all’arco a sesto acuto che si incontra scendendo le scale, vi sono tracce di affreschi con motivi floreali. Molto probabilmente quest’accesso si andò ad innestare e andò a modificare l’accesso originale. Il secondo accesso è costituito da una sovrastruttura esterna con uno stemma nobiliare, le cui scale conducono al colonnato posto a destra dell’altare. Numerose aperture nella volta consentono di fruire del sito utilizzando la luce naturale del giorno. In corrispondenza dell’altare principale, posto nel bel mezzo della cripta, la volta è costituita da una struttura in muratura che si erge dal piano stradale, sormontata da bellissimo campanile a vela. Ampie finestre rendono la zona dell’altare particolarmente luminosa.
La zona della cripta in cui presente l’altare è racchiusa in un quadrato di balaustre e colonne ottagonali. Tra giochi di pietra barocchi vi è incastona l’immagine della Vergine con il Bambino. Una corona retta da due angeli impreziosisce la cornice devozionale. Ad entrambi i lati dell’altare principale e a questo addossati, anche se arretrati, vi sono due altari della cui destinazione e dedicazione originaria non ci è pervenuta alcuna notizia. Nell’altare di sinistra, si possono notare residue tracce di affreschi. La cripta è di dimensioni notevoli, la più ampia sino ad ora visitata. La volta è retta da ben 19 colonne dalle forme irregolari, con un’altezza media del soffitto di 2,18 metri. Il colonnato è in muratura, mentre persistono antichi pilastri scavati nella roccia. Così come in muratura sono buona parte delle pareti della cripta, segno di continui rimaneggiamenti subiti dalla struttura nel passato.
All’interno, degli antichi affreschi si è salvato ben poco, anche se quanto giunto sino a noi è sicuramente significativo. Quasi alle spalle dell’altare principale si trova un altare a credenza, ricavato nel banco tufaceo con i resti di due affreschi palinsesti, rappresentanti un Cristo che sale il Calvario e una Crocifissione. Il Cristo che porta la croce, ha il nimbo crocesegnato e una tunica bianca. Nel secondo affresco, nella lunetta frontale, la scena della Crocifissione con la Vergine e San Giovanni.Un cielo stellato è dipinto sulla volta di questa nicchia. Tale disegno pare che continui sul soffitto della cripta. Questo è quello che appare oggi sotto lo strato di calce che in epoche successive ha nascosto le antiche decorazioni. Il gruppo di affreschi più interessanti, anch’essi su duplice strato, è a sinistra dell’altare principale sulla parete nord. Il gruppo è costituito da quattro riquadri in cui sono rappresentati una Santa, due scene più grandi e un’altra Santa.
La cripta è stata oggetto di interventi di restauro che hanno consentito di rendere più leggibili questo decorazioni parietali che, quando furono oggetti di studio del Fonseca, si presentavano poco o per nulla leggibili. Andiamo a vedere come ci appaiono oggi. Partendo da sinistra, la prima figura di santa (non riconosciuta dal Fonseca) indossa una tunica stretta in vita e un mantello color rosso, che sembra quasi svolazzare al vento. Con la mano sinistra regge la palma del martirio, mentre con la destra protegge una torre. Vicino alla testa della santa il nome che si può leggere è “Barbara”. Si tratta di una rappresentazione tipica di Santa Barbara che viene spesso raffigurata con accanto una torre. Tradizione vuole che il padre pagano, scoprendo che la figlia era stata educata al cristianesimo, la rinchiuse in una torre prima di denunciarla come cristiana. Solitamente la torre presenta tre aperture (a simboleggiare la Trinità), mentre qui ne appaiono due a cui si aggiunge e quella che sembra un’apertura posta alla base della torre vicino ai piedi della santa.
L’effetto cercato dall’artista con lo svolazzare del mantello potrebbe rimandare al fatto che Santa Barbara è invocata a protezione delle tempeste e dei fulmini. In alcuni paesi del leccese esiste una formula di preghiera devozionale con la santa protagonista sullo stesso stile di “Àzzate San Giovanni”. Nel più ampio riquadro successivo, particolarmente rovinato, compare una santa con una tunica verde e un mantello rosso che regge anch’ella la palma del martirio mentre con la destra ha in mano quello che sembra una sorta di calice ma che potrebbe anche essere uno degli oggetti con cui viene rappresentata Santa Lucia (non sempre con il tipico piatto) su cui sono poggiati i suoi occhi. Purtroppo questa parte dell’affresco è rovinato. Il riquadro successivo è particolarmente complesso perché è alquanto evidente la sovrapposizione di due affreschi di epoche successive.
Il restauro di questa zona ha permesso di riportare alla luce, accanto all’affresco già identificato dal Fonseca con la morte di San Bonaventura, una “Dormitio Virginis”. Nell’affresco si possono notare due gruppi di figure. La prima si riferisce all’immagine di un papa che regge in mano un libro e con l’altra benedice con un aspersorio. Accanto al papa figure oranti e poco sopra dei volti con l’aureole siglate. Due di queste sono leggibili e sono una FI e una A. Il secondo gruppo vede come figura centrale una figura maschile benedicente, con barba bianca e con in testa una tiara, il tipico copricapo con cui si suole rappresentare non solo un pontefice ma anche la Chiesa nella sua interezza. Questa figura appartiene all’affresco della “Dormitio Virginis” in quanto appare evidente come alcune decorazioni dell’abito della figura maschile siano uguali a quelli della Vergine. Alle spalle, poco sopra la tiara, il volto del Cristo, un mezzo busto femminile e tracce di aureole.
In questo riquadro viene rappresentato un particolare abbastanza inquietante. Nella parte bassa, con il pavimento a scacchiera, è presente un angelo con la spada sguainata, con la quale ha appena tagliato le mani ad una figura con copricapo, inginocchiata dinanzi a lui e con una borsa legata al fianco. Dalle mani tagliate sprizza sangue. Da una breve ricerca, emerge come in alcune rappresentazioni della “Dormitio” si suole rappresentare l’immagine di un ebreo che vuole toccare il corpo della Madonna con le mani, ma l’angelo gliele taglia prontamente con la spada. La scena è ricavata dai vangeli apocrifi dedicati alla “Dormitio” in cui si descrive la scena nella quale il sommo sacerdoti o i notabili del tempo (dipende dalla versione) cercano di impossessarsi del corpo della Vergine. Nelle diverse versioni, uno degli assalitori viene colpito da un male alle mani, tale che rimangono attaccate al corpo della Vergine. I vangeli proseguono con la guarigione dell’assalitore dopo aver riconosciuto e creduto in Cristo e in sua Madre.
Questa cruenta rappresentazione esprime un monito severo, cioè il divieto di avvicinarsi ai misteri della vita dell’aldilà con la stessa curiosità e con gli stessi metodi di conoscenza che sono riservati al mondo fenomenico, quello in cui noi viviamo. In alcune rappresentazioni, le mani vengono tagliate al demonio che cerca di prendere l’anima di Maria. Nello specifico, fedelmente a quanto raccontato negli antichi testi, ci va di mezzo un ebreo. Come datazione di massima il Fonseca indicava il XIV-XV sec. per l’affresco del S. Bonaventura, mentre quello superiore, la “Dormitio” al XVI sec. Dopo il restauro qualche nuova riflessione sulla datazione degli affreschi penso che si imponga.
Ma arriviamo all’ultima santa rappresentata nel gruppo degli affreschi. Il riquadro più a destra. Una figura che ha fatto immaginare la presenza in questo sito dei Cavalieri Templari. D’altro canto il Salento è stata terra di partenza ed approdo verso e dai territori della Terra Santa durante il periodo delle crociate. Inoltre è documentato come nell’antica chiesa brindisina della Madonna del Casale si ebbe a svolgere il processo provinciale verso i templari che risiedevano nella zona a seguito dell’epurazione voluta da Filippo Il Bello. La figura rappresentata in grandezza naturale tiene nelle mani un calice, chiuso superiormente da un coperchio conico. Intorno al capo la scritta con il nome della santa “Maria Magdalena”. Nell’iconografia classica il calice contiene la mirra, ovvero l’unguento con cui la penitente, dopo aver lavato i piedi del Cristo e averli asciugati con i suoi capelli, unse i piedi del Signore. Ma è lo stesso unguento con cui Maria si stava recando al sepolcro per ungere il corpo del Cristo, salvo trovarlo vuoto. Intorno alla figura di Maria Maddalena si è tanto discusso e tanto ancora si discuterà, soprattutto perché nei Vangeli le “Marie” menzionate dagli apostoli sono diverse e non sempre è facile identificarle in modo specifico e distinto; in alcuni casi vi sono studiosi che pensano che si tratti della stessa persona. Ma non è il mio campo, è qui mi taccio. Fatto sta che soprattutto grazie ad un vangelo apocrifo, il Vangelo di Filippo (II sec), intorno a questa figura sono sorte credenze e leggende sin nei primi secoli del cristianesimo.
Ma intorno a questo sito si racconta un’altra leggenda, più dai contenuti locali e popolari, che ci riporta alla scoperta della cripta dopo che la stessa venne abbandonata e cadde in disuso.
Si dice che una volta viveva una giovane donna, che era muta da circa dieci anni. Un giorno tornando insieme con la madre da un podere, e passando davanti alla quasi ignorata grotta, il suo volto s’illuminò di gioia nello scorgere tra gli sterpi, nel fondo della grotta, un rilievo luminoso. Allora la giovani che non aveva mai parlato, chiamò a gran voce la madre affinché potesse vedere anche lei. La madre si pone accanto alla figlia ad osservare la cavità ma non vide nulla. Fatto sta che la figlia parlava come se lo avesse fatto da sempre.
Tornate in paese raccontarono l’accaduto e si iniziò a gridare al miracolo. La gente del posto accorse nel luogo indicato dalle donne e, calandosi nella grotta, videro in fondo ad essa la Madonna in rilievo. Da allora la zona venne nuovamente ripristinata a culto.
Giunta in punto di morte, racconta la leggenda, la ormai non più giovane fanciulla chiese alla Vergine la grazia di poter restare in eterno nell’angolo benedetto dal cielo, per continuare a contemplare, custode di una immagine, la luce della sua terra. E allora la mano divina la trasformò in lucertola affinché potesse continuare a vivere in quei luoghi.
Termino questo viaggio con la raccomandazione a visitare questo suggestivo luogo e invitandovi a non disturbare le lucertole che incontrerete. Non si può mai sapere!