Un richiamato dell’89
Cap. Fedele Salacino
Nel dicembre del 2007 Giovanni Montinari, pronipote del Salacino, stampa un libretto, fuori commercio, riproducente il Diario o, per meglio dire, quello che resta del Diario, per farlo leggere al padre Angelo, nipote del Nostro, che venerava molto suo zio e al quale lo legava un profondo affetto e un grandissimo amore.
Il Diario gli era stato donato da Edda, sua cugina. È doveroso premettere che il capitano Fedele Salacino è richiamato sotto le armi durante la guerra in Africa Orientale. Dopo varie peripezie, come si evince dal Diario, nel 1940 da Napoli si reca a Bari e s’imbarca sul piroscafo Olimpia alla volta di Valona, in Albania. Però l’Olimpia, ancorata presso Saseno, isoletta davanti alla baia di Valona, viene bombardata dagli inglesi: la cabina del capitano Salacino è sommersa dall’acqua; tutti i bagagli vanno alla malora, compreso anche ilDiario e tutti quanti i disegni in acquerello fatti su di esso: sicché i disegni sono sbiaditi e la scrittura, per così dire, liquefatta e di difficile interpretazione.
Bisogna aggiungere, inoltre, che il Salacino nasce a Galatina il 25 giugno del 1889; svolge la professione di insegnante elementare nella sua città. Sposa Giulia Maria Tundo, dalla quale ha quattro figli: Luigi, Raffaele, Carmela ed Edda. Nel 1929 pubblica un volumetto di poesie in vernacolo, A tiempu persu, con lo pseudonimo di Cino de Portaluce. Muore a Galatina all’età di 54 anni, l’8 ottobre del 1943.
Il Diario è una vera e propria testimonianza della vita del capitano Salacino durante questo periodo di guerra e manifesta, in maniera inequivocabile, tra ansie e timori, i dubbi e l’incertezza sull’esito della guerra. Spesso, infatti, dice: “Perché sto in Albania? Perché? Perché?…”. E gli ritornano in mente le lunghe passeggiate che faceva con Uccio De Donno “lungo i pietrosi sentieri che da contrada San Sebastiano in Galatina, mandano a Galatone, a Nardò e a Collemeto, traverso una foresta di ulivi… Nessun casolare, non una voce d’uomo… Finalmente il verde cupo che fino a quel momento, aveva impedito di volgere lo sguardo su più vasto orizzonte, cominciò a divenire più rado e poi a scomparire. Una campagna brulla ci si presentò davanti… A pochi passi dalla strada era una casa colonica… Questa è contrada Latronica. A cinquecento metri, lì giù, più avanti, è la masseria della Latronica… Bussammo in un vecchio portone… Dopo non poca attesa… dall’interno… apparve il capo di una donna anziana che ci chiese cosa volessimo… Ho dimenticato di dire che De Donno indossava, quella volta, la sua divisa coloniale con stivali e speroni e frustino in mano.
… Vogliamo comprare della ricotta se ce la volete vendere… oppure del formaggio fresco… Qui il vecchio portone si spalancò e venne fuori un uomo. – Favorite! Entrammo nella masseria e ci mettemmo a sedere. L’uomo si allontanò e rientrò con una grossa forma di cacio pecorino e me la offerse.
- Professore, te la regalo per la Buona Pasqua! Ricotta a quest’ora non ce n’è!….
Era già buio e Galatina attendeva al di là dell’oliveto, dopo lo scontorto sentiero irto di pietraia e di fossette erbose a circa sei chilometri. Come scorgemmo le prime case della città, già pioveva…
E ancora con nostalgia il Salacino rivive con la mente il tempo in cui lui, studentello di quinta ginnasiale, faceva la corte a Giulia, sua futura moglie.
… “Povera Giulia, quanta noia non le diedi, quanti dispiaceri per nonnulla… Ella però mi voleva bene davvero… e finì con l’avere ragione del tutto il giorno 27 giugno dell’anno 1911, quando ci sposammo… Giulia, insieme a me, aveva un altro pretendente, un certo Antonio Vergine, cartolaio e legatore di libri… Costui a dire un po’ il vero era il beniamino di mio suocero:… questi vedeva nel Vergine una persona più seria, più fattiva e più capace… Certo è che tra me e il Vergine si stabilirono rapporti poco cordiali… Si era in campagna ai Paduli, l’anno 1909. Il mio podere distava da quello di Giulia appena un dieci minuti di cammino: per la quale cosa non mi era di impedimento l’andare da lei tre o quattro volte al giorno… Il giorno 8 settembre mio suocero mi propose di andare a Collepasso… per vedere le luminarie e i fuochi di artificio in onore della Madonna delle Grazie… Andammo… Ed ecco che si presenta in mezzo a noi Antonio Vergine: vestito di nuovo e conduceva a mano una lussuosa bicicletta… Ci incontrava… casualmente. Volle far sfoggio del suo ubi consistam: comprò delle noccioline e delle mandorle abbrustolite e ne diede in maggior parte a mio suocero… ci menò in una osteria e lì fece bere diversi bicchieri di vino…
Dopo la mezzanotte prendemmo la via del ritorno. Mio suocero invitò il cartolaio a seguirci e fare con noi la strada dei Paduli; da qui poi avrebbe raggiunto la strada di Cutrofiano che, dalla strada Colaturo, mena a Galatina… Fu questa per me una grave umiliazione. Quell’invito significava appunto: Giulia è in casa: se vuoi vederla… E per tutta la vecchia strada da Collepasso sino alla casina di Ascalone, fu tutta un’infilata di punzecchiature… Dalla casina Ascalone alla contrada Colaturo correva una vecchia carreggiata, in certi punti al di sopra di 1 e 2 metri dal piano coltivato, impraticabile nel periodo di pioggia… Da questa carreggiata a cento metri di detta tenuta si accedeva alla casa di villeggiatura dei miei futuri suoceri… Colsi l’occasione di non so quale allusione che a me il Vergine faceva, e questa volta… cominciai ad assestargli pugni e calci con la violenza di una gragnuola estiva che arriva inaspettatamente… Lo presi per i fianchi e lo scaraventai nel sottostante vigneto… A terra, sulla carreggiata era poggiata la sua bicicletta di marca… dopo alcune mie pedate ai raggi delle ruote, la sollevai di peso con ambe le braccia e la gettai lontana riducendola in frantumi…
Alcuni anni dopo ci riappacificammo con il Vergine: ma come già scritto nel libro del destino egli non doveva godere di questa vita: richiamato alle armi nel 1915 morì di palla austriaca nel campo dell’onore!
Da quanto s’è detto, appare chiaro che il Salacino è uno “scrittore” asciutto, breve, senza fronzoli e senza aridità; senza enfasi, alieno da ogni colore rettorico, badante piuttosto alla sintesi degli avvenimenti che alla narrazione dei fatti ai quali partecipò in prima persona. E il Diario si snocciola tutto in questa direzione, sia che parli dei paesaggi intorno a Valona sia che faccia il resoconto delle operazioni di guerra. Però il Salacino, alias Cino de Portaluce, sta tutto in tre componimenti del suo Diario, in vernacolo, in cui appare a volte una pungente, a volte una celata e malinconia ironia.
Aggiu fattu na notte propriu brava,
Giulia: me sonnu de na signurina!…
C’era?… nun so!… La signurina stava
Susu a nu canapè de seta fina,
russa ca ti cecava l’occhi!…
Cosa de meravija, Giulia! Piettu e coscia
nudi!… a stenti na magliettina rosa
dhu puntu li scundia ca nu sse moscia!
Cu l’anche a cavarcuni, tutte zzizzi,
cu certe scarpicelle a simpatia,
cu lli capelli neri e rizzi rizzi…
Giulia, propiu cusì… parola mia!
E poi l’occhi… Nu l’aggiu visti mai,
Giulia, e li musi comu na rusicchia…
Ti giuru ca se Santi eranu a dhai
ti li scuddhava puru de la nicchia!
Eppuru, Giulia lu maritu tovu
stava a sou postu comu petra cruda!…
Iu la quardava senza cu mme movu
la bella signurina tutta nuda…
Oh la quardava, sì,… lu pizzichinu
né era… ma poi la ragiunava, già, la cosa:
e cce vi, se me nvicinu?…
Tu, Giulia, sai ca quista è verità!
E, nu putendo d‘ommu, la facia d’artista!…
Forsi forsi, moglie mia, pe lla tema ti dole sta facenda,
ca tocca llassi in tuttu la marenda!
Maca!… ciuvieddhi, e cu lla fazza ‘n posta,
avia saputu meju, ieri a sera…
percè la signurina facci tosta
era… na crossa bambula de cera!
Questo è un componimento poetico dedicato alla moglie Giulia, per farla, per così dire, ingelosire. Gelosia che la donna non provava come lo si può constatare da altre pagine del Diario.
Tutti li passari
hannu lu pizzu:
hannu le femmane
tutte lu rizzu;
tutti li masculi
portanu mpisa
la cravattina
a la camisa;
ogni caddhina
tene la crista;
tene la manica
qualunque cista;
persone e ciste,
buttija e rzulu
sotta alle maniche
hannu lu culu;
hannu le pecure
la fantasia
de le cacagnule
comu vulia,
mentru lu vove
cchiu sacristanu
la face comu
(illeggibile);
ogne pasulu
ndistintamente
tene lu spiritu de cumbattente;
tutte le miessi
hannu la spica;
ogne culumbu
porta la fica;
i ciucci volenu
le ricche longhe;
su’ mare tutte
le catalonghe;
qualunque sèmana
fruttu produce;
li api cunservanu
lu fruttu duce;
hannu li prevati
longa suttana
ogne dumenaca
face semàna;
tene lu lippu
la cozza nuda;
hannu li pulici
curta la cuda.
Ogne carusa
tene lu spilu,
sotta a lle maniche
crisce lu pilu;
sotta a lla neve
stannu li strunzi
ogne Puntalice
tene li nunzi;
sotta a lla lammia
stisu lu jettu;
intra a llu jettu
lu scarfaliettu;
susu a llu jettu
dorme lu tale
sotta a llu jettu
nc’è lu rinale;
doppu lu mare
zzicca la terra;
doppu la Francia
nc’è l’Inghilterra;
tutti li scenchi
hannu la trippa;
tutti li ngrisi
fumanu a pippa;
hannu li ngrisi
tostu lu coru:
quiddru ca dannu
di robba loru!…
……………..
……………..
Una sottile e incosciente sia pur bonaria ironia traspare dal tratteggio di Hoxha, la lavandaia.
Ede lu diavvulu
pintu e scuddhatu:
nasi de papara
occhi pisciatu…
Simile a ncinu
lu vangalieddhu,
sanni de ciucciu
musi de geddhu,
la pelle a scarde
de baccalà…
Hoxha la veduva
èccula qua!
Cutumi cutumi
quantu na rzula
nu cruppu d’aria
face cu vula.
Porta li sandali
fatti de ntrama,
porta la veste
usu pigiama…
Se vole ppiscia,
l’ave ttrinchià…
Hoxha la veduva
èccula qua.
Susu a llu còcculu
nu muccaluru
fronte li mbojaca
e capu puru;
lu stessu sparganu
lu coddhu chiude
e scinde all’anguli
come do’ cude:
simile a monaca
de carità
Hoxha la veduva
èccula qua.
De forma tunda
lu retu manca,
lisciu lu piettu
comu na chianca:…
Era nu masculu
ma bruttu assai
se nu ttenia
dha cosa ddhai…
Ci vole vedere
la rarità,
Hoxha la veduva
èccula qua.
Questa lavandaia è brutta quanto il diavolo; ha il mento a forma di uncino, i denti simili a zanne, grossi quanto quelli degli asini, mentre le labbra sono piccolissime come il becco degli uccelli.
Il termine cùtumi potrebbe derivare dal greco kùtos, parte concava di un recipiente; però è più verisimile che si riferisca al latino quotumus, piccolo. Rzulu (lat. urceolus, dim. di urceus) è l’orciuolo, recipiente di creta per acqua e per vino. Còcculu (gr. kòkkalos, pigna) è il cranio, la testa; muccaluru (lat. muccatorius) fazzoletto per il naso. Spàrganu (gr. spàrganon), fascia, pannicelli per bambini. Per ciò che riguarda il termine cruppu non so se il Montinari abbia decifrato bene il termine. Può darsi che il Salacino abbia scritto cruffu, che è il vento di libeccio, che viene dal mare. Comunque sia nell’uno che nell’altro caso il senso e il significato del verso non cambia.
Piccola piccola, quanto un orciuolo, il soffio dello scirocco o una folata di vento la fa volare. Ha i sandali intrecciati con delle corde che sembrano budella. Ha sul cranio un grande e lungo fazzoletto che le copre la fronte e la testa, e come una fascia le cinge il collo e scende giù da una parte e dall’altra con due code. Il corpo è rotondo; scarseggia di glutei e di seno. Con linguaggio più colorito diremmo noi: chianulisciata de nanzi e de retu (piallata sul davanti e sul di dietro).
Però, malgrado la descrizione nuda e cruda, sia pur realistica, della donna, il capitano Salacino voleva bene a questa lavandaia. Poco prima l’aveva informata dell’uccisone di sua sorella per mano del marito, che ora stava sui monti con le capre.
“E qui la donna ruppe in pianto asciugandosi gli occhi in un lembo del suo copricapo. Poi svolse il mio fagottino e numerò il contenuto… E se ne fuggì verso una catapecchia di legno, nera come la notte, nei cui pressi stava una tinozza piena d’acqua, un pezzo di sapone e dei panni ammonticchiati… Più in là, invece, mosse da un vento leggero leggero, alcune camicie fermate a una corda, tra albero e albero, mostravano al sole del mattino il loro candore accecante…