LA QUINDICINA
di Pippi Onesimo
Il sig. Cherondula aveva appena chiuso il telefono e, visibilmente soddisfatto, abbandonava la scena, mentre una risata generale e un fragoroso battimani lo accompagnavano in segno di appagato compiacimento.
Lui, però, incurante, serio e impettito, quasi indifferente, schivo come un attore esperto, reduce da tante battaglie affrontate su immaginari palcoscenici incantati, imboccava via Orfanotrofio.
Questa stradina, breve e sottile comu nu vermecòculu, annaspa a doppia ansa, schiacciata dall’imponenza del palazzo signorile dei “Vallone“ e dall’arroganza del palazzo Stasi, i quali con malcelata prepotenza sembrano toglierle il respiro.
Poi, dopo pochi passi, quasi schizzando via con un balzo liberatorio, si dissolve su Piazzetta Arcudi.
Qui, lu Piethruzzu, oltrepassata la putia de lu Scjancatu, si fermava un attimo a bere un sorso d’acqua da una antica fontanina pubblica, che non sempre riusciva, come nemmeno oggi, ad assolvere il suo istituzionale compito… dissetante, per l’incivile offesa de li cuastasi (ragazzacci di strada) e per la scarsa manutenzione pubblica.
Subito dopo, in tutta fretta, si incamminava lungo via Vignola per scendere giù, verso Chiazza Vecchia (Piazza Vecchia).
E, mentre incedeva con passo svelto e sostenuto, sembrava avere l’aria austera e solenne di un personaggio greco, per caso scivolato giù da una tragedia di Sofocle.
Forse è successo per la disattenzione di una antica Antologia di classici greci, che da sempre aveva custodito le sue opere gelosamente.
Ma non questa volta, perché era stata lasciata per un attimo con negligenza aperta sulla panchina cosparsa di foglie, in un giardino silenzioso e assolato.
E certo quella imprudenza ha esposto involontariamente una di queste opere alla curiosità del vento.
Questo, soffiando per gioco o per dispetto, in un andirivieni divertito e quanto mai confuso e irreale di mulinelli, ha sfogliato il libro, sollevando a tratti la copertina e rigonfiandole con spudorata irriverenza la custodia di carta oleata che la proteggeva.
Poi la ribaltava e la richiudeva con ritmi imprevedibili e capricciosi.
Così il vento si divertiva, trascorrendo il suo tempo, mentre il sole filtrava, attraverso le foglie di un antico salice, con sottili, tremuli coni di luce polverosa obliquamente infissi nel soffice prato delle aiuole sottostanti.
Di tanto in tanto, con soffi improvvisi e intermittenti, smuoveva le foglie giallo oro appena cadute e frusciava fra le pagine ingiallite del libro, mentre scorreva le sue righe con indiscreta ma delicata circospezione.
E ciò, fino a quando il sole non si adagiava, sbadigliando stanco e scapigliato, dietro un muro di cinta, dopo aver abbozzato col suo faccione largo e rubicondo un fugace sorriso, quando era ancora seminascosto dietro l’antico, imponente, irsuto campanile del paese.
Salutava anche, con cortese e gentile discrezione, le ultime rondini, che garrivano, roteando con ampie, fantasiose, veloci evoluzioni, o con placidi, piccoli cerchi asimmetrici, che sembravano sfiorare, planando, i rossicci tetti a embrice di vecchie case, che, timorose e spaventate, si stringevano attorno, come arroccate e raccolte in un antico e assonnato presepe.
Forse questi eccellenti, infaticabili, puntuali migratori inseguivano, come sempre, i loro sogni, capricciosamente fluttuando nel cielo azzurro appena appena cangiante nel grigio, per l’avanzare del tramonto, che pian piano cominciava a velare la campagna circostante.
Intanto, come a un segnale convenuto, si davano appuntamento, radunandosi a ranghi compatti sui fili d’alta tensione e formando, da palo a palo, una lunga catena, a più strati, di puntini neri stretti stretti, quasi collegati come in una immensa collana.
Era già settembre e le rondini si preparavano a levarsi in volo per far ritorno a casa; prima, però, garrivano per qualche istante, quasi volessero scrivere nel cielo un cordiale ringraziamento per l’ospitalità ricevuta e un rumoroso, vivace arrivederci alla prossima primavera.
Subito dopo, finalmente, avevano via libera le ombre della sera, che, sempre con una irriverenza pettegola e una sospettosa curiosità, invadevano in tutta fretta la scena, accasandosi senza perdere un attimo di tempo, perché fin troppo affaticate dopo tanto girovagare.
E mentre il vento si acquietava, tutto intorno rimaneva solo il rumore impercettibile, rispettoso e solenne, ma delicatamente discreto, del silenzio della notte.
A qualcuno che gli chiedeva perché aveva tanta fretta di raggiungere Chiazza Vecchia, il sig. Cheròndula rispondeva sorpreso e meravigliato: “comu?… nu’ lu sai, ca osce cade ‘u giurnu de la quindicina de la Rusetta? ”(Come ?… non lo sai che oggi arrivano da Rusetta le nuove signorine, per il cambio quindicinale?).
Poi, con un sorriso ammiccante e malizioso, appena abbozzato, continuò a scendere per via Vignola.
Chicco non fece caso, più di tanto, a quel discorso, anche perché non ne afferrava il senso.
Solo qualche anno più tardi, amici più anziani, più esperti e più navigati gli spiegarono il significato di quel rituale.
Gli riferivano che il cambio arrivava preciso, regolare e puntuale, come i trionfali, imbandierati e vanitosi treni del Ventennio, ogni quindici giorni e si svolgeva fra i complimenti e gli ammiccamenti a volte gentili, a volte volgari, ma… in verità interessati dei passanti, qualcuno dei quali potenziale, se non sicuro, cliente.
Le Signorine, alcune in gruppo, altre in fila, comunque in ordine sparso, tutte imbellettate e incipriate spargevano dietro di loro una ubriacante, avviluppante e sbarazzina carrara (scia) di profumo e di curiosità.
Si radunavano in Piazza San Pietro, fra il portone d’ingresso del Castello e il bar Sammartino, dove erano giunte con automobili di servizio, messe a disposizione dall’Organizzazione.
Camminavano a piedi con studiato, lento e cadenzato portamento, ancheggiando sulle chianche con impercettibili movimenti ondulatori del bacino, accentuati con capricciosa eleganza e ricercata movenza.
Ottenevano questo effetto morbido e vellutato, quasi provocatoriamente signorile, con ostentata vanità, ma senza scadere mai nella volgarità o nella sguaiata e grossolana sciattezza.
Le gambe erano la loro arma migliore, la loro punta di diamante, il loro manifesto pubblicitario, specie se avvolte in calze a rete sottili e quasi invisibili, …se non fosse per una cucitura nera che verticalmente attraversava il polpaccio ben modellato, esaltandone le fattezze.
Ma l’effetto scenografico diventava speciale, quando incedevano con alti e pericolosi tacchi a spillo, che solo la loro navigata e sperimentata esperienza riusciva a tenere sempre diritti, senza mai deragliare di un millimetro.
Vestivano vistosi, policromi e attillati tailleurs in parte sbottonati con sbarazzina, contenuta civetteria.
Evidenziavano così candide camicette con i colletti arricciati, come se fossero festose ghirlande di fiori posate sui loro colli diafani e vellutati.
Queste erano poco trasparenti, se non quel tanto per renderle con studiata malizia appariscenti.
Le scollature erano meno provocanti, appena appena ammiccanti, mai volgari, offensive, o irriverenti.
La pubblicità era anche allora, come oggi e come sempre, l’anima del commercio.
E quella vera, che alimenta la concorrenza, se condotta con lealtà, trasparenza e rispetto delle regole, è la sola capace di esaltare il confronto e la libertà di scelta.