Il fatto accaduto a Martano duecento anni fa

FURTO PERFETTO, MA…

…GRAZIE A UN ASINO, I LADRI FURONO ASSICURATI ALLA GIUSTIZIA E IMPICCATI

di Emiliana Diamanti

L’episodio, sconosciuto ai più, è narrato dallo storico salentino Pietro Palumbo di Francavilla Fontana nel primo volume della sua maggiore opera, intitolata “Il Risorgimento Salentino (1799-1860)”.

Leggendo le interessanti pagine di questo libro, fui colpita da un episodio di sangue accaduto a Martano, in provincia di Lecce, nell’anno del Signore 1815.

Partiamo un po’ da lontano per inquadrare meglio l’episodio.

A quei tempi l’Italia era frammentata in tanti staterelli, soprattutto nella parte centro-settentrionale della penisola. L’unico stato ad avere una notevole estensione ed importanza era il Regno delle Due Sicilie, dove la maggior parte della gente, però, viveva tra molti stenti e ignoranza. Di ricchezza c’era tanta, ma tutta o quasi tutta era di esclusivo appannaggio dei nobili e dell’alta borghesia. Il resto della popolazione era costretto a subire le regole del tempo, fatte di vessazioni, umi- liazioni, bastonate, incarcerazioni e, in casi estremi, di fucilazioni.

Anche nel resto della penisola le condizioni di vita erano tali, se non addirittura peggiori. Pertanto, lungo tutto lo stivale si susseguirono con una certa frequenza dei moti rivoluzionari tesi a rovesciare le varie monarchie opprimenti e a riunire le genti italiche sotto una nazione “unica, libera e indipendente”. A tal uopo sorsero dappertutto delle società segrete, in modo particolare nel Salento, chiamate anche “vendite carbonare”, i cui appartenenti avevano giurato fedeltà, onestà d’intenti e fermezza nel combattere la prepotenza dei monarchi. In queste associazioni carbonare vi fu un vero fermento di idee democratiche e libertarie, di complotti, di azioni dimostrative e di vere rivolte, spesso finite nel sangue.

Accanto a queste manifestazioni patriottiche, si costituirono, nella confusione del tempo e dei ruoli, anche delle bande di profittatori e malandrini che perseguivano ben altri intenti.

In questo contesto, nell’ottobre del 1815, si verificò a Martano (LE) un fatto delittuoso di inaudita violenza, che scosse per alcuni anni l’opinione pubblica salentina.

A Lecce, fra gli scrivani dell’Intendenza di Finanza, vi era un tale Giuseppe Armorino, nativo di Padova. Grazie ad informazioni emerse da alcune indagini effettuate da un Ispettore dell’arma, il patavino venne a conoscenza che nel grazioso paesello di Martano, nella villa di un certo Pasquale Corina, vi erano nascoste immense ricchezze in danaro e gioielli.

L’Armorino, d’animo profittatore ed egoista, volendosi impadronire della grossa fortuna, organizzò una banda composta da una ventina di uomini, scelti tra il fior fiore della delinquenza salentina.

Fattosi prestare un asinello da un amico, abitante ai Molini di Rugge, nei pressi dell’ospedale di Lecce, l’Armorino con i suoi amici malavitosi si recò, attraverso vie interne di campagna, a Martano in contrada “Catumerea”, dove insisteva la sfarzosa abitazione del Corina.

Si era ormai all’imbrunire, con quasi tutti i martanesi ancora nei campi o sulla via di ritorno verso casa. Anche Pasquale Corina era in campagna a sbrigare gli ultimi lavori. In casa vi era solo la moglie Concetta Maglietta e il figlioletto Stapino.

I malviventi, con molto cautela e circospezione, individuarono la villa del ricco possidente e bussarono con forza al portone d’ingresso. La donna, spaventata dall’insistente ed insolito frastuono, dopo aver nascosto il figlioletto sotto un seggiolone, andò ad aprire la porta. Alla vista di tante persone incappucciate ed armate sino ai denti, la donna rimase terrorizzata. Provò a richiudere la porta, ma non fece in tempo. La masnada di brutti ceffi irruppe con violenza nei vari ambienti domestici, mettendo sottosopra l’intera abitazione. Alcuni malviventi rimasero fuori a far da guardia, altri salirono sul tetto a sorvegliare se qualcuno si stesse avvicinando, il resto, tra cui l’Armorino, strattonarono più volte la donna, intimandole di consegnare tutte le ricchezze, in cambio della sua vita.

La donna, fortemente impaurita, acconsentì di buon grado. Scese in un seminterrato e consegnò ai malfattori le ingenti fortune. Quelli, per paura di essere stati scoperti, la uccisero, conficcandole un pugnale in pieno petto. Dopodiché fuggirono con l’immenso bottino, che consisteva in 40.000 ducati e vari gioielli e monili in oro e argento. Il tutto fu riposto in alcuni sacchi e caricato sull’asino.

Sempre per vie traverse, i banditi si dileguarono con facilità, aiutati dalle ombre serali.

Giunti nel bosco di Torre Pinta, situato tra Lecce e Galatina, nascosti tra la fitta boscaglia, divisero l’immensa ricchezza, per poi svanire nel nulla. Degli assassini e ladri non si ebbe più notizia per alcuni mesi e il caso sembrò definitivamente chiuso.

A reprimere i movimenti patriottici nel Salento era stato chiamato il generale inglese Richard Church, il quale non si limitava a soffocare ogni anelito di libertà, ma era altresì interessato a stroncare ogni forma di banditismo imperante in quel turbolento periodo.

Al generale Church, quindi, spettò il compito di scoprire gli autori del grave misfatto ed assicurarli alla giustizia.

Le indagini proseguirono in tutte le direzioni ma nulla venne a galla. Alle autorità sarebbe bastato anche un piccolo indizio per arrivare ai malfattori. E così avvenne.

Dopo la spartizione del bottino, i banditi abbandonarono l’asino a se stesso, che vagò nel bosco, esteso per centinaia di ettari, senza che nessuno se ne accorgesse.

Dopo oltre un mese, l’animale, per sua fortuna e per sfortuna di qualcun altro, riuscì a venir fuori dalla fitta boscaglia fatta di sterpi, rovi e lecci fittamente infrascati, cosicché, individuata la strada per Lecce, se ne tornò lemme lemme dal suo padrone.

L’uomo, meravigliato e giulivo per aver ritrovato la sua cara bestia, provvide subito a darle da mangiare. Le tolse di dosso la pesante bardatura, ma, tra tanta sorpresa, da una tasca laterale caddero per terra diversi ducati d’oro ed una collana di perle, che ovviamente furono manna gradita per l’uomo. Da quel giorno la sua vita cambiò completamente. Non mancò di acquistare mobili, una nuova casa, un terreno, vestiti, scarpe e quanto necessario ai suoi familiari. Di tutto ciò se ne accorsero gli amici e conoscenti, i quali pretesero dal neo ricco le dovute giustificazioni di cotanto benessere. L’uomo ebbe a vantarsi, sostenendo che, da quando aveva prestato l’asino all’Armorino, la bestia defecasse ducati d’oro.

“Forse l’animale ha mangiato per più di un mese dell’erba miracolosa, che gli ha consentito di espellere dal didietro monete d’oro!… Purtroppo, ora che sta mangiando soltanto paglia, non lo fa più!”.

La notizia fece il giro di tutta Lecce, sino ad arrivare alle orecchie ben tese del generale Church. L’alto ufficiale iniziò ad indagare e ad interrogare tantissime persone, fino a quando la verità non venne fuori.

L’Armorino fu arrestato e con lui quasi tutti i componenti della banda. I malviventi furono condannati a morte. Le sentenza fu eseguita nella piazza principale di Martano in presenza di una folla traboccante. All’Armorino, dopo l’impiccagione, fu staccata la testa e appesa ad uno dei merli della torre marchesale di Martano.

Perciò, grazie ad un innocente asino, l’Armorino perse i ducati, la vita e… la testa.

Come dire che alla verità basta un piccolissimo spiraglio per venir fuori.

Quindi, meditate ladri, meditate!