SANT’ORONZO, TRA SACRO E PROFANO
Miracoli, leggende, aneddoti e curiosità sul Patrono e i Patroni di Lecce
di Antonio Mele ‘Melanton’
Lecce Città-chiesa, è stata definita. E anche, la Città più santa del Regno di Napoli.
Dopo Napoli, s’intende.
Nessun altro luogo del Sud, e forse d’Italia e dell’Europa cristiana – salvo che la grande Capitale partenopea – poté infatti vantare, dal Seicento in poi, un primato così incredibile e assoluto in Santi protettori come Lecce. Nel 1616, affiancandosi a sant’Irene, fu eletto a compatrono della città il gesuita Bernardino Realino. Al quale si aggiunsero, nel ’30, sant’Antonio da Padova, san Francesco Saverio e sant’Ignazio di Loyola. Nel ’41 è la volta di san Domenico, nel ’48 si hanno san Francesco d’Assisi e san Francesco di Paola, nel ’56 sant’Oronzo, nel ’58 san Fortunato e san Giusto, e nell’88 altri 12 santi tutti insieme!
Se l’aritmetica non è un’opinione, arriviamo a 23. E in tal caso, non fosse altro che per l’imbarazzo della scelta, ai leccesi veniva proprio da dire: “Nu se sape cchiui a cci Santu n’imu bbutare!”…
Minus principales, letteralmente “meno principali”, venivano chiamati questi comprimari della fede e del culto, delegando tutta l’importanza al Santo Patrono “maggiore”. Il quale, tuttavia, in quei secoli di massimo fervore religioso, non poteva affatto stare tranquillo, e doveva guardarsi dai molti… Concorrenti, ancorché “minori”, perché bastava un miracolo ben azzeccato, un singolo episodio prodigioso, o perfino una mera apparizione provvidenziale, per perdere all’improvviso tutto il proprio potere, prestigio e autorevolezza.
Si direbbe che le regole del regno dei cieli somiglino in alcuni casi a quelle terrene, e la storia dei Santi è talvolta condizionata tanto dalla devozione quanto dall’immaginazione e dal volubile umore del popolo, che in una sciagura debellata, in un assedio respinto, o in una semplice pioggia dopo qualche mese di siccità, vede un segno misterioso e speciale, accreditando l’intervento risolutivo a questo piuttosto che a quell’altro ‘protettore’, e spostando conseguentemente l’ago delle proprie preferenze e benevolenze.
Pensiamo a Sant’Oronzo, per esempio. Fu appunto a furor di popolo che l’attuale Patrono di Lecce spodestò rapidamente l’antica protettrice della città, sant’Irene.
L’occasione fu data da un’epidemia di peste che nel 1656 si abbatté su tutto il Regno di Napoli, mietendo vittime ovunque. Soltanto Lecce e circondario sembravano miracolosamente immuni dal morbo, tanto che il popolo e lo stesso clero, tra cui il famoso vescovo dell’epoca Luigi Pappacoda, insieme a don Domenico Alchimia (un eccentrico prete d’origine calabrese, sempre soggetto a visioni alquanto prodigiose), si convinsero, e convinsero tutti, che a preservare dal flagello quella parte di territorio salentino era stato giustappunto sant’Oronzo.
Molti giuravano d’averlo visto aggirarsi sulle mura della città e lungo le porte d’accesso per scacciare gli appestati provenienti da lontano; altri avevano addirittura udito i cori degli angeli che accompagnavano anche di notte le solenni processioni guidate dallo stesso infaticabile vescovo; ad altri ancora sant’Oronzo era apparso per tranquillizzarli, e farsi a loro volta portavoce che tutti i fedeli di Terra d’Otranto, suo tramite, sarebbero stati protetti dalla peste.
Il culto per Sant’Oronzo non era comunque del tutto nuovo per i leccesi, che già molti secoli prima, agli albori del Cristianesimo, avevano manifestato tutta la loro devozione per il martire concittadino. Quando Nerone decise di perseguitare i Cristiani, Oronzo sfuggì alla cattura, nascondendosi prima in una grotta nelle campagne di Ostuni, poi in un’altra nei pressi di Turi. Non a caso, entrambe le località venerano anch’esse sant’Oronzo come loro patrono.
A Turi il fuggitivo fu preso, ricondotto a Lecce, e qui condannato a morte per decapitazione.
La condanna fu eseguita in una campagna a circa un miglio fuori città, su quella che oggi è la strada per Torre Chianca. Sul posto esiste ancora un santuario detto Capu te santu Ronzu (Testa di sant’Oronzo), costruito su un precedente tempietto votivo, dove la tradizione vuole che siano ancora conservati i resti martoriati del Santo, raccolti all’epoca da una pia donna di nome Petronilla.
Fino a non molti anni fa lungo la strada che porta al santuario i fedeli muovevano in pellegrinaggio, soffermandosi, come in una Via Crucis, davanti alle diverse cappellette (in dialetto leccese cone, cioè icone), costruite a ricordo dei vari emblematici momenti del martirio: dalla flagellazione alle torture alle varie sofferenze patite prima della decapitazione…
Questo pellegrinaggio, che poteva durare anche molte ore, fece nascere un detto popolare: Sta bbai pe’cone (letteralmente: “Stai andando per icone”, nel senso figurato di: Cammini, ma ti fermi spesso), con ironico riferimento a chi, di sera, faceva il giro della città, fermandosi a bere vino ora in questa, ora in quella osteria…
Dopo la peste, il colera! Non c’è che dire, a Lecce non si facevano mancare proprio nulla…
Dopo la terribile peste del 1656 (che spaventò la città, ma senza conseguenze disastrose), nel 1884 si ebbe nel capoluogo e in tutta la penisola salentina un’allarmante epidemia di colera, per cui si resero necessarie misure speciali di sanità pubblica, fino a proibire qualsiasi genere di riunione, laica o religiosa che fosse, al fine di evitare ogni possibilità di contagio.
Ma si era al pomeriggio del 24 agosto, a pochi minuti dalla solenne processione di sant’Oronzo, e quando giunse la notizia del divieto, la folla delusa si riversò minacciosa e vociante a protestare nel cortile del Vescovado. Non avendo avuto rassicurazioni sul regolare svolgimento della funzione religiosa, il popolo dei fedeli entrò come un fiume in piena nel Duomo, prelevò a forza la statua di sant’Oronzo e la portò fuori, decisi più che mai a svolgere il corteo, nonostante l’ordinanza ministeriale e il conseguente blocco deciso dalle autorità.
“Il colera non ci fa paura! Sant’Oronzo ci ha salvati da pestilenze ben più terribili!…”: questa era la convinzione dei leccesi più fanatici e decisi che, contrastando la ferma opposizione dei carabinieri e delle forze dell’ordine, imposero comunque una processione improvvisata, pericolosamente ondeggiante in una calca di folla tumultuosa, e così incontenibile da richiedere l’intervento di due compagnie di soldati.
In breve, fu una vera battaglia, che sfociò perfino nell’assalto dei manifestanti alla casa del sindaco del tempo, Antonio Panzera, con cariche dei militari, e molti feriti sul campo.
Quando la rivolta fu sedata e gli animi si rasserenarono, i leccesi si ripromisero di rifarsi alla prossima processione, che sarebbe stata “la più solenne e memorabile della storia”. Quanto al colera, già pochi giorni dopo i disordini di piazza del Duomo, nel capoluogo salentino circolava questa beffarda filastrocca: “Iddhru è fessa, ca le porte, / nui te Lecce, l’imu chiuse; / e macari tozza forte: / tocca rresta nfrezzulatu; / nu lu passa lu steccatu, / nu la pigghia la cuccagna!” (Lo abbiamo fatto fesso – il colera -, ché le porte, noi di Lecce, le abbiamo chiuse; e magari che insiste a bussare forte: deve restare infreddolito, isolato; non supererà lo steccato, non prenderà la cuccagna!”.
Ironia della sorte, anche sant’Irene era diventata a suo tempo patrona di Lecce per una epidemia seguita al devastante terremoto del 5 dicembre 1456, che interessò un vasto territorio dell’Italia meridionale, compresa Lecce e la Terra d’Otranto. In tale occasione, infatti – proprio come avverrà per sant’Oronzo due secoli dopo – il popolo riconobbe alla Santa l’intervento miracoloso che preservò la città da altre peggiori conseguenze, e la acclamò unanimemente sua protettrice.
Nel 1591, in onore di sant’Irene, fu poi eretta una chiesa monumentale, affidandola alle cure dei Teatini. Questo fatto provocò la gelosia dei Gesuiti. I quali, per strapparne il culto dalle mani dei rivali, nel 1604 fecero arrivare da Roma alcune preziose reliquie della Santa, conservandole nel loro convento, e procurandosi con questa mossa il favore del pubblico dei devoti. A loro volta, i Teatini – appoggiati peraltro dal sindaco dell’epoca – qualche tempo dopo fecero venire nella loro chiesa addirittura il corpo di sant’Irene, ritrovato a Roma nel cimitero di san Sebastiano, reliquia che i Gesuiti però contestarono energicamente, cercando di dimostrare che non si trattava delle vere spoglie della patrona, ma di un’altra quasi omonima e non ben identificata santa Irenia o Ireniana.
Fu, insomma, l’inizio di una vera e propria “guerra del culto”, che si concluderà nel 1656, allorché, tacitando ogni ulteriore contesa, a patrono indiscusso di Lecce, come abbiamo già visto, sarà appunto eletto sant’Oronzo.
Ma il fatto più straordinario, unico e incredibile nella storia della Chiesa, avviene nel 1616, con l’elezione a patrono di Lecce – morente, ma ancora in vita! – di san Bernardino Realino. Anzi, del non ancora santo Bernardino Realino, che agli onori degli altari sarà eletto soltanto tre secoli e mezzo dopo la sua morte!
Nato a Carpi, Modena, nel 1530, e arrivato a Lecce nel 1574 (dove si fermerà per 42 anni, fino alla morte), Bernardino Realino entrò giovanissimo nella Compagnia di Gesù e dal 1567 ne diventò il maestro dei novizi. Nel capoluogo di Terra d’Otranto fondò un importante Collegio, si dedicò alla cura degli infermi e rifulse per la sua costante opera di bontà e carità, al punto che, prossimo alla morte, ricevette in forma ufficiale una visita dei Reggitori del Municipio di Lecce, con la richiesta solenne di voler accettare l’incarico a “protettore della città per tutte le generazioni a venire”!
Un fatto senza precedenti, motivato dalla forte personalità e dal riconosciuto carisma di questo autentico ‘uomo santo’, sempre partecipe a situazioni, bisogni, e necessità di vario genere, che riguardavano l’intera popolazione leccese senza discriminante alcuna, impressionando tutti con la sua irriducibile pazienza nell’occuparsi e risolvere i problemi, provvedendovi con energia prodigiosa, tant’è che gli si attribuivano vari miracoli già da vivo.
Colpito infine da un morbo incurabile, diventa quindi quasi naturale per la municipalità chiedergli questa protezione anche oltre la vita terrena. E per Bernardino è altrettanto naturale acconsentire e prendere un tale impegno con la “sua” amata città.
Con questa promessa di patrocinio perenne, Bernardino Realino si spegne nel 1616, a 86 anni, diventando poi santo nel 1947, per proclamazione di papa Pio XII. Gloria in excelsis.