Anche da morti si ostentava la propria condizione sociale
I funerali dei “signori” d’un tempo
Sia nel palazzo sia in strada che in chiesa si doveva osservare un rigido protocollo, al quale dovevano sottostare i parenti, gli amici e, in particolar modo, chi aveva dei rapporti commerciali con la famiglia del defunto e coloro che erano alle sue strette dipendenze.
di Emilio Rubino
In passato, anche l’avvenimento legato alla morte era per i ricchi del paese l’occasione per ostentare tutta la notorietà e la stima che il defunto e la sua famiglia riscuotevano nell’ambito della comunità cittadina. Più che momenti di dolore e di sconforto per la perdita del proprio congiunto, erano invece ore di concitazione generale per organizzare nel migliore dei modi la cerimonia funebre e dare quindi un’imponente e vistosa dimostrazione all’intera città della potenza economica e sociale del defunto.
Per comprendere meglio quanto fosse minuzioso e vasto l’apparato dimostrativo che con il decesso del “signore” si metteva in movimento, basta pensare all’enorme nugolo di “famigli” legati alla figura dello scomparso e cioè tutte quelle persone (e non erano poche) che avevano un rapporto di servitù e di collaborazione con la famiglia del defunto.
Convocati sotta a llu palazzu, i “famigli” avevano il compito di avvisare (a quel tempo non vi era il telefono) amici e conoscenti del luttuoso evento, di farsi carico dei servizi più impellenti connessi con i funerali o, semplicemente, di sostare nei vari ambienti del palazzo come atto dimostrativo dell’importanza del defunto.
Della privilegiata schiera dei “famigli” facevano parte il fattore, figura onnipotente che rappresentava la longa manus del padrone, i fatturieddhri, persone delegate dal fattore a tutelare gli interessi del “signore” in ogni singolo podere, i massari, i coloni, i fittuari, gli alani, i contadini della casa ed inoltre i titolari di un contratto d’affitto di abitazione, di locali per negozio, di deposito, di stalla, ecc. Insomma, un piccolo esercito di dipendenti e servitori o di persone legate da un rapporto di collaborazione che concorrevano ad impinguare il patrimonio di quella famiglia grazie al continuo apporto di derrate alimentari (granaglie, olio, vino, leguminose, lana, latte, ecc.) e di contante derivante da locazioni e fitti annuali.
Quando, pertanto, nella vecchia Nardò veniva a mancare un tal ricco signore, la complessa ma snella “macchina” umana si metteva subito in movimento, tanto che la vita dell’intera città ne risentiva in proporzione dell’importanza sociale e potenza economica del “signore”. Di pari passo, tutte le attività legate direttamente ed indirettamente al defunto erano bloccate per alcuni giorni: cessavano i lavori dei contadini, dei pastori, dei bovari; si chiudevano le cantine, le stalle, i trappeti, così come i negozi. Guai se qualcuno dei diretti interessati non si atteneva alla legge della “riverente sottomissione” alla famiglia del defunto: ci pensavano i fattori a farla rispettare con le buone e con le cattive maniere. Colui che senza giusto motivo si fosse sottratto a quest’obbligo, non solo avrebbe commesso un grave affronto ed un’offesa verso i familiari e lo stesso fattore, ma avrebbe definitivamente troncato ogni rapporto di “benevola sudditanza” con tutto l’ambiente padronale, il che voleva dire niente più lavoro e niente più pane per i propri familiari.
Faceva parte del cerimoniale funebre un gruppo di 16 o 24 uomini, scelti tra i più prestanti fisicamente della grossa schiera dei “famigli”, i quali, senza ricevere alcun compenso e in gruppi di otto, facevano con fervoroso zelo la veglia funebre e, all’indomani, la guardia d’onore della salma. Per facilitare un buon flusso e deflusso dei visitatori, la bara era collocata nell’ambiente più spazioso e meglio arredato del palazzo. L’evento rappresentava anche una buona occasione per facilitare l’incontro, quasi mondano, delle famiglie benestanti del paese.
Nel pomeriggio del giorno successivo al decesso si organizzava in pompa magna il corteo funebre, il quale prevedeva una ben precisa disposizione della gente. Innanzi a tutti vi era lu focalaru che ogni tanto segnalava con lo sparo di mortaretti, la presenza del corteo funebre. Subito dopo sfilava l’apparato delle corone floreali, portate da coppie di contadini, fittavoli e coloni, lungo le principali vie del paese (anche quest’aspetto costituiva ostentazione dell’importanza della casta). Seguiva, poi, il gruppo sacerdotale (la “domina sana”), costituito da dodici preti che, lungo tutto il tragitto, pregavano per l’anima del defunto.
Dopo seguiva la bara che era poggiata su una struttura a tre assi, chiamata còndula. Il tutto era sostenuto a spalla da sei persone molto robuste, che, di tanto in tanto, erano sostituite da altre che si trovavano ai lati.
Dietro al catafalco, si snodava finalmente il corteo dei partecipanti. All’inizio vi erano alcuni parenti (i familiari del defunto rimanevano a casa), i personaggi più in vista della città (le autorità, i nobili, altri ricchi, ecc.) e poi a seguire si snodava la lunga fila dei famigli, anche questi disposti in ordine di importanza. Tutti portavano un cero acceso, fornito dalla famiglia del defunto, alla quale doveva poi essere restituito. Dal momento in cui la salma lasciava la propria casa, le campane di tutte le chiese cittadine suonavano a murtòriu, cioè con rintocchi lenti.
Una volta giunto in chiesa, il feretro veniva issato, grazie all’aiuto di scale e quant’altro, sulla cosiddetta castillana, una grande impalcatura alta alcuni metri, intorno alla quale erano accesi dei ceri e deposti i fiori. Accanto a questo mausoleo sostavano per tutta la notte le guardie d’onore, scelte sempre tra i famigli.
Il giorno successivo si ricomponeva il corteo ed il feretro era trasportato al camposanto. Anche qui il primo ad aprire la lunga fila era il solito fucalaru, il quale sparava in continuazione mortaretti in onore dello scomparso sino al portone d’ingresso del cimitero. Prima di andar via, faceva scoppiare il petardo più grosso, il cosiddetto corpu a cannone, che stava ad indicare l’ultimo omaggio della gente al defunto.
La còndula, di legno massiccio e con vari fregi, era deposta nella cappella gentilizia di famiglia e sorvegliata per tutta la notte da otto famigli.
All’indomani mattina la bara era riposta nel sito definitivo.
Solo da allora cessava per tutti lo stato di lutto ed ognuno poteva ritornare liberamente alle proprie occupazioni.
Del sontuoso apparato funerario ora non restava più nulla, forse neppure il dolore; l’unico segno di lutto era rappresentato da una piccola banda nera intorno alla manica dell’abito di ogni familiare maschio e la veste e il velo neri indossati dalle donne.
La vita ricominciava con il solito tran-tran degli ordini impartiti dalla vedova (la signura) alle domestiche e al personale di casa e dal figlio (lu signurinu) nei riguardi del fattore per il daffare nei campi.
La “macchina umana”, insomma, riprendeva a funzionare come prima, come sempre.
Della fastosità della pompa funebre si parlava per diverso tempo in più occasioni e in molti luoghi con ammirata valutazione, come a voler tenere ancora in vita il ricco “signore”, mentre per i famigli del paese, per coloro cioè che avevano sudato e dedicato per un’intera vita le migliori energie al padrone, per quelli non vi era nulla dopo la loro morte, nemmeno una breve considerazione. Morivano in silenzio, lasciando i familiari nel dolore (intenso) e tra tante lacrime (vere). Il loro funerale doveva essere “sbrigato” in tutta fretta per non ostacolare più di tanto la normale vita del paese. La salma, dopo un breve passaggio in chiesa, era condotta frettolosamente al cimitero sul cosiddetto carru “fuci fuci”[1].
Sono proprio quest’ultimi uomini (i famigli) a ricevere oggi la nostra stima, compiacenza e, se permettete, la nostra ammirazione. Gli altri, i ”signori”, hanno già ricevuto elogi e lodi in gran quantità: ora è bene lasciarli riposare per l’eternità nel freddo silenzio della loro tomba.
[1] …carru “fuci fuci” – Letteralmente carro “fuggi fuggi”. Era questo un carretto sul quale veniva deposta la bara, che, durante il veloce spostamento al cimitero, rischiava di cadere per terra, perché quasi mai era imbracata opportunamente.