10 giugno 1918
di Marcello Urso
Erano ormai le quattro e trentanove
di una mattina calma e muta
di fine primavera, quando dove
nessuno mai avrebbe preveduta
simile cosa, motobarche nuove
ad una angolazione sconosciuta
videro sopra Otranto la nera
traccia di fumo d’una ciminiera.
Rizzo virò a sinistra ed, accostato
alquanto il mezzo suo a quello accanto,
mandò una voce: “Peppe, hai lo stato
attuale della Squadra? Cristo santo,
non penso il Nino Bixio già arrivato
giù delle coordinate cositanto”.
Giuseppe Aonzo prese la tabella,
la consultò; poi disse: “Non è quella”
Entrambi della classe ottantasette
Avevan Rizzo e Aonzo trentun anni:
ma l’un nel grado primo poco stette
avendo fatto all’Austria gravi danni.
Ed or de’ Capitani di Corvette
aveva righe e bitte sui suoi panni.
Il primo siciliano di Milazzo;
Aonzo di Savaona era un ragazzo.
Le loro siluranti, quasi uguali,
sedici metri circa di lunghezza,
due e sessanta larghe, laterali
siluri avevan due, ed in altezza
due mitragliere al centro coassiali,
con una bandierina nella brezza;
un metro e venti forse di pescaggio,
otto uomini in tutto l’equipaggio.
Il Mas ventuno, che calata fato
era di fresco in grande precisione,
era quello da Aonzo comandato;
invece il quindici, che nuova revisione
presto attendeva, a Rizzo consegnato
era stato in attesa di missione:
avevano motori Fraschini
e due motori elettrici Rognini.
La silurante nuova ed insidiosa
riusciva ventiquattro nodi a fare;
ma con pregiudiziale fastidiosa:
i quattro addizionali da affidare
alla corrente elettrica, che cosa
non era tanto facile a serbare.
Quattrocentosessanta di cavalli
In potenza-motore: e molti stalli.
Che facevano in mare gli ufficiali?
Secondo l’italiano spionaggio
aveva l’Ammiraglio Horthy tali
forze navali sul pugliese raggio,
da rendere probabili e letali
le conseguenze d’un navale oltraggio.
Su Brindi e su Otranto il naviglio
nemico dar voleva gran scompiglio.
Il fumo nel crepuscolo copriva
almeno trenta gradi d’orizzonte:
e l’albeggiare lento suggeriva
almeno quattro corazzate pronte
a fare rotta verso nostra riva.
E poi s’indovinava un curvo monte,
chè dietro si stendeva verde e nuda
un’isola dalmatica: Premuda.
Svelto Luigi Rizzo dal cruscotto
trasse (chè in ripostiglio vi celava
attrezzi, carte nautiche e più sotto
tra calibro e sestante sussultava
finanche un po’ di vino in un fiascotto)
quello che adesso più gl’interessava:
il binocolo grande da Marina
per scrutar nella nebbia mattutina.
Girò la messa a fuoco a cremagliera
ed osservò: due ampie corazzate
coprivan tutta quanta la scogliera.
Ameno ventimila tonnellate
ognuna di dislocamento era.
Poi esclamò con frasi soffocate:
“Madonna santa d’Austria e Germania!
Quelle son… l’Alessandria e la Stefania!”
“Vuoi dire… Santo Stefano?”gli fece
Aonzo sbalordito. “Via i motori!”
rispose gutturale Rizzo, invece.
Si staccarono i fili conduttori.
Vi fu silenzio d’una ottusa specie.
Poi: “Vedo pur la Tegetthoff, lì fuori.
E vedo tre Corvette. Diamo addosso.
Chè stiamo sottovento. E non è mosso”
Aonzo s’informò: “Come possiamo?”
E Rizzo di rimando: “Passeremo”.
Poi, volto all’equipaggio: “Or andiamo
e quei signori li bastoneremo.
In tutto solo sedici noi siamo:
e temo ch’anche un po’ le buscheremo.
Purtroppo, marina, non va a finire
bene ogni cosa. E qui si può morire”
“Ben dieci pezzi da duecentottanta,
pezzi da centodue e settantasei,
nove pezzi da cento”; era tanta,
in questo meditare sul “farei”
l’angoscia in Rizzo: fretta che ti schianta.
Rizzo guardava muto verso i sei
Suoi marinai già pronti alla battaglia
e il settimo che stava alla mitraglia.
Aonzo, similmente, volto ai sette
suoi uomini di mare d’equipaggio:
“Il Comandante, amici, vi trasmette
quest’ordine di lotta e di coraggio.
L’azione gravemente adesso mette
a repentaglio vostra vita. Saggio
darete in precisione nel colpire;
di come un soldato sa morire”
Rizzo poi disse: “Ci divarichiamo
soltanto, bada bene, nel momento
in cui con sicurezza ci accorgiamo
del loro marinaro avvistamento.
Fin lì diciotto nodi noi teniamo.
Poi, presto a ventiquattro! Sottovento.
A questo punto in mezzo alle due navi
io passo, e tu dal fondo ben le scavi”.
Il vento sollevava il Tricolore
alle spalle d’Aonzo, che riprese:
“E se odono subito il motore?
Se non stanno a guardar nostre sorprese?”
“Chi se ne frega” dell’Affondatore
fu il commento rapido e scortese.
“E adesso basta, troppo abbiam parlato.
Avanti! Se non ci hanno già avvistato.”
Concordi i due motori riaccesi
furono dei Nostromi. Sguardi attenti
sotto i berreti marinari tesi
seguirono il vibrar degli strumenti.
Due Sottocapi ai lati erano scesi e
controllavan dei morsetti i denti.
Infine, all’improvviso tonitruanti,
schizzaron via le siluranti, avanti.
E mentre il motoscafo rumoroso
puntava della Squadra il destro ramo,
Rizzo pensava assorto al misterioso
momento in cui dal corpo ci stacchiamo,
e riscopriamo il mondo più curioso
chè finalmente tutto noi sappiamo:
e quello ch’era gioia od il travaglio
ora ci appare un clamoroso abbaglio.
Aonzo che, a costanza di regime,
vedeva quelle navi avvicinarsi
e già ne distingueva fin le cime
dei fumaioli più distinte farsi,
cercava col binocolo far stime
delle parti più facili a sfondarsi.
Scoccavan le ore cinque del mattino:
albeggiava e il nemico era vicino.
Le motosiluranti a tutta forza
spingevan la potenza del motore,
e rinserrate in lor ferrigna scorza
vibravan di meccanico tremore.
Tesseva loro il vento un’epic’orza
su cui fluttuava a strappi il Tricolore.
A sol due miglia ormai eran venuti:
eran le cinque e undici minuti.
Ormai snervante parve lor l’attesa.
Troppo vicini, adesso! Mille metri?
I marinai sporgevan faccia tesa
e gli occhi lor ossessionati e tetri.
Avrebbe funzionato la sorpresa?
Gli sguardi dietro i provvisori vetri
delle visiere da combattimento
lottavan con le lacrime e col vento.
Le mani tormentavano i morsetti
dei grandi due siluri laterali;
scoppiavan loro i cuori dentro i petti
all’ingrandirsi freddo delle ali
d’acciaio dei piroscafi perfetti.
Lunghi duecento metri: colossali.
I venti nodi orari eran tenuti.
Eran le cinque e tredici minuti.
D’un tratto fu il suonar della sirena
che lacerò la quiete mattutina.
La Tegetthoff gridava. Come piena
d’angoscia. La flottiglia pose a spina
l’assetto suo, con tormentosa lena.
S’insanguinò di urla la mattina.
“Italienisch Kommando!” Questo grido
dalla Corvetta rimbombò sul lido.
“Was ist denn das” chiedeva il Comandante
della Szent Istvan che, tutto coperto
dalla terza Corvetta a lui antistante,
sentiva di sirene quel concerto.
Udivano fragore ondeggiante
il cui significato era incerto.
Allora fu ordinato di svegliare
i marinai dormienti in mezzo al mare.
Dalle brande a quattro incastellate
piovevan marinai col pigiama,
s’udivano parole soffocate
quasi d’oscura, inattingibil trama.
Torme di quei Matrose assonnate
muoveva verso il ponte adusta brama
di una qualche lor sopravvivenza:
ma ne mancava come la coscienza.
Gridò Luigi Rizzo: “A ventidue
nodi! Su, entriamo coi supplementari!”
Aonzo si staccò verso le prue
nemiche. Crudi l’abbagliaron fari.
“Or ventiquattro nodi!” Ognun le sue
armi portava in differenti mari.
La prima cannonata:
dieder scarto.
Segnava l’orologio cinque e un quarto.
Rombando s’innalzarono di poppa
i motoscafi armati di siluro.
Pareva l’energia adesso troppa;
il beccheggio non era più sicuro.
Un cavallo di ferro che galoppa
nel suon di cannonate secco e duro.
Aonzo virò tutto sulla destra,
Rizzo trovò a sinistra una finestra.
Il Mas ventuno adesso, nella bassa
maretta mattutina, sulla fissa
sua strada scivolava in spuma grassa.
Intonò il mitragliere: “Fior di melissa,
ricorda, di Revèl, che il tempo passa
e resta ancora invendicata Lissa”
“Piantala!” fece Aonzo a tal canzone,
“Niente cantare: sol concentrazione!”
Frattanto Rizzo s’era incuneato
tra le due navi piccole di scorta.
Un colpo da trecento fu schivato
dal Mas numero quindici in accorta
virata sullo specchio ormai agitato;
evitata quell’acquatica gran porta,
ormai gli s’allargava gigantesca
davanti l’Ammiraglia austro-tedesca.
Pazzi di rabbia i quattro Comandanti
delle navi di scorta i loro pezzi
facevano sparare tutti quanti
tentando di colpire i motopezzi.
Ma questi ormai schizzavano in avanti
vibranti nei ferrigni loro attrezzi.
Uno perfin tentò speronamento
del Mas ventuno, senza compimento.
Gli otto del ventuno, che schivati
avevan da novanta vari colpi,
sempre più attenti, tesi e concentrati
sobbalzavano sotto i contraccolpi
dei flutti dalle bombe più agitati
tra le murene e i galleggianti polpi.
Raggiunser della Tegetthoff i muri
metallici. Sganciarono i siluri.
Poi, terminata presto lor missione,
virò il Secondo Capo timoniere
con calma ed irreale precisione.
Usci dal cupo fondo del bicchiere
il Mas ventuno. Invano l’esplosione
atteser Silurista e Mitragliere.
Aonzo picchiò un pugno, furibondo,
quasi volesse il Mas mandare a fondo.
Passato quell’estremo sbarramento
Luigi Rizzo venne mitragliato
dall’ultima Corvetta. Il pavimento
di schegge si coprì. Nell’agitato
specchio marino vinse un sentimento
d’angoscia l’uomo ardende ed isolato:
i densi e scuri baffi siciliani
or Rizzo tormentava con le mani.
La brezza più infuocata schiaffeggiava
le gote agli otto Arditi imporporate.
Ecco: la Santo Stefano lì stava,
con quelle ventimila tonnellate
di stazza. La sua forma dilatava
se stessa quasi in urla disperate.
Chè di metallo lo squadrato monte
copriva adesso tutto l’orizzonte.
Sudate eran le mani ai Siluristi
che stringevano le leve dei morsetti.
Il Capo e il Sottocapo elettricisti
avevan per tensione i petti stretti.
Quei ventiquattro nodi giammai visti
avrebber sopportato i lor cavetti?
Ma la tension coraggio lor non smorza:
non cede, la Brigata della Forza.
Picchiava il monoblocco più compatto
il ritmo suo di corsa furibonda.
Le Tegetthoff faceva un fuoco matto
levando una corrusca e torbid’onda
coi pezzi da trecento. Ed ogni impatto
nell’acqua spalancava buca fonda.
Può ciò fermar chi segue il suo dovere?
Non cede, la Brigata della Forza.
Ormai troppo vicina era la chiglia:
si era giunti in rotta-collisione.
“Fuori uno!” Il Silurista via la briglia
mollò al suo meccanico bestione.
Si sciolse da giallastra sua fanghiglia
il nero meccanismo ad immersione.
E rapida scia bianca, più scialbata,
sorniona s’affilò alla corazzata.
“Adesso a poppavia! Dai! Ora! Sterza!”
gridò l’Affondatore al suo pilota,
attento militar Capo di Terza.
“Ed ora fuori due!” Fu tosto vuota
l’orizzontale rampa. Come sferza
metallica il siluro avanti nuota.
Il piccol sommergibile scia bianca
avventa: e a sua destinazione arranca.
Le mattinali masse d’aria fonda
furono da esplosione cruda scosse.
Pochi secondi. Ed ecco: una seconda
terribile esplosione l’acqua smosse.
L’immensa Santo Stefano alla fonda
vibrò sotto le ruvide percosse.
“Tre gradi di tribordo. Basta. Fuori”
Garriva la bandiera a Tre Colori.
“Ist das denn moglich?” ora si domandava
il Comandante della Corazzata
nemica. Egli a comprendere stentava
quella velocità sì inusitata
nel manovrare. Poco gli restava
per prender decisione ragionata.
“Wer batte das gedacht?” Rassegnazione!
Ed ordinò immediata evacuazione.
“Rasch! Rasch!” gridavan tutti i militari
o “schenell” beeile dich!” nell’affluire
sul ponte. Per scalini poco chiari
s’ammucchiavan urlanti nel salire.
Si lagnavano ancora pochi ignari
non fosse mai momento per dormire.
Poi, dalla tolda ormai molto inclinata,
si tuffavano in mare all’arrabbiata.
Il Mas ventuno e il quindici di Rizzo
avevan terminato la lor caccia.
Estinto il fulminante loro guizzo,
adesso procedevan in bonaccia.
Puntaron del Gargano l’ampio pizzo
che vaneggiava in fumigante traccia
sfruttando a combustione inibita
la scarsa autonomia lor consentita.
Purtroppo una a poppa ed una a prua
aveva Rizzo buche ben piazzate:
la nave perse subito la sua
orizzontalità. Nelle fiancate
comparvero voragini. La tua
calma conservi quando condannate
vedi ambizioni grandi ed immortali
che scopri buffonate colossali?
La precisione di quell’ambo secco
aveva impresso moto rotatorio
all’ammiraglia. Un misero sciabecco
a stragli e boma il moto sussultorio
dell’onda avrebbe tollerato. Ecco
che invece il peso fu mortorio
ad essa: ventimila tonnellate
eran già a mandritta rovesciate.
Ormai, senza pensare alle scialuppe
i marinai austriaci a gara
facevan a tuffarsi. Poi si ruppe
tutto il bompresso. Parve adesso chiara
di mettere in salvo sol le truppe
l’urgenza inflessibile ed amara.
La nave s’inclinò tutta sul fianco
levando fumo sfrigolante e bianco.
L’immane squalo grigio, nei duecento
metri abbondanti della sua lunghezza,
s’inabissava silenzioso e lento
non senza qualche eroica grandezza.
Dieci minuti e poi l’affondamento
ebbe la sua luttuosa completezza.
Essendosi tuffati tutti in mucchio,
pochissimi scamparono al risucchio.
Non molto lungi d’Otranto i due mezzi
si ritrovaron nella estesa rada.
Aonzo era nervoso e alquanto a pezzi
nell0ttimismo. Come aguzza spada
il sol feriva gli uomini agli attrezzi.
Aonzo disse a Rizzo: “Fammi strada.
Beato te che sei andato a segno.
E’ chiaro ch’io non abbia pari ingegno”
“E’ mica vero” Rizzo con passione
a lui, “poche frazioni di secondo
avanti che sentissi l’esplosione
che ha spedito la mia nave a fondo,
ho avuto la nettissima impressione
di udire come un suono più profondo
e sordo provenir dall’altra chiglia:
quasi un sasso che urti una bottiglia”.
In seguito, è noto, fu accertato
che il siluro d’Aonzo, ben diretto,
non era nell’impatto suo scoppiato
forse della testata per difetto
o per aver tritolo un po’ annacquato.
Or Rizzo disse all’altro con affetto:
“Peppe, la gradiresti tu in omaggio
questa bottiglia? Per il tuo equipaggio”
Aonzo ebbe un sogghigno. I marinai
guardavano quel vino interessati
chiedendosi che marca fosse mai.
Rispose: “Tu ci vuoi ubriacati,
Luigi, per dimenticare i guai
con la bottiglia” Riser gl’imbarcati.
Dall’uno all’altro Mas essa fe’ volo:
Aonzo l’acciuffò, ingrugnato e solo.