Esempio tangibile della saggezza popolare
Lu dittèriu
Il popolo, quando parla, sentenzia
di Piero Vinsper
Lu ciucciu ci mandai nun ippe ricche: l’asino che mandai non ebbe orecchie. Questo proverbio è usato dal popolo quando vede, per mancanza di qualcuno, che una missione sortisce un effetto contrario a quello che si aspettava, e si resta perciò disillusi. E si noti: questi tali il popolo li chiama ciucci, qualificandoli ignoranti, perché non capiscono ciò che devono fare e dire, ciucci che non hanno orecchie, (aborto di natura, perché le orecchie dell’asino sono abbastanza pronunziate! Sono anzi proverbiali!) perché uno, ignorante quanto si voglia, può fare qualcosa di buono, se presta udito a ciò che gli si dice; ma se all’ignoranza si accoppia la cocciutaggine e la sordità involontaria, allora si finisce sempre con l’ottenere un effetto doppiamente funesto.
Ama l’amicu tou cu llu vizziu sou: ama l’amico tuo con il vizio suo. Nemo mundus a sorde: è biblico il motto: tutti abbiamo difetti, e, chi dice di non averne, smentisce e mostra di avere quello dell’orgoglio, per cui si reputa un superuomo, e che basterebbe per tutti. Questo concetto è necessario che ci accompagni nelle relazioni di amicizia. Un amico perfetto, in tutta la estensione della parola, non potremmo trovarlo che in un ambiente superiore al livello dell’umanità, ma finché l’amico sarà carne, ossa e cartilagine, come noi, avrà sempre i suoi difetti, come noi abbiamo i nostri.
Ci campa de speranza desperatu more: chi campa di speranza muore disperato. La speranza è l’ultima dea. E sta bene, ma non è la sola, per cui non ci si può consacrare interamente a lei, qualcosa di noi bisogna pur dedicarla alle altre dee, per esempio all’operosità. La speranza non ci autorizza a vivere nell’ozio, perché non ci assicura che all’ora del pranzo verrà essa, o manderà qualcuna delle sue ancelle per portarci il panem nostrun quotidianum, tanto più che il corvo, che portava il pane a San Paolo Eremita nelle Tebaidi, è morto da parecchi secoli, né i suoi discendenti non hanno appresa quell’arte filantropica, ma pensano soltanto a beccare per conto proprio. Alla gente, che vive nell’ozio sperando, il popolo rivolge un ironico consiglio: spetta, ciucciu miu, finché nu rriva la paja nova!
Ci paca ‘nnanti è mmale servitu: chi paga anzitempo è malservito. E’ frutto di esperienza, egregi operai; non vi offendete se il popolo vi lancia sul volto questo insulto, è un insulto, se volete, meritato. E dicendo operai, intendo dire a tutti coloro che prestano un’opera, qualunque essa sia. Il denaro è molla potentissima, tutto si fa per guadagnarlo; quando si è incassato non c’è più lusinga che ci spinga anche ai sacrifici nella prestazione di un’opera. Pagate anzitempo il calzolaio! Forte della sua cassa… debole, vi consegnerà un paio di scarpe che si romperanno prima di calzarle. All’avvocato non date che il semplice invito prima che si discuta la causa, se lo disfarete per intero… perderà la poesia! Compensandolo anticipatamente, correrete un brut- to rischio: lo avete pagato bene? E la troppa gioia gli farà dar di volta il cervello; lo avete compensato male? E allora qualis pagatio talis pictatio! Camorrista no; minchione… tanto meno…
Ci spera de rricchire inthr’all’annu mpoverisce inthr’allu mese: chi spera di arricchire in un anno diventa povero in un mese. Non bisogna mai confidar troppo nel futuro, né rimandare al domani ciò che si può fare oggi: il domani verrà, ma non sappiamo se verrà per noi, e se, trovandoci, ci troverà nelle condizioni di oggi. Alcuni, nella speranza di arricchire nel futuro, scialano e godono nel presente. Imprudenti! La ricchezza non è una manna che caschi inopinata nel deserto delle vostre saccocce, la ricchezza è il frutto dei quotidiani risparmi, perciò, di quel che si guadagna, si tolga quanto è necessario alla vita e il resto lo si metta da parte, accumulando per l’avvenire. Così si formano le vistose ricchezze, non già sciupando oggi con la speranza dell’avvenire. In questo caso, si sa, si avvera sempre l’altro proverbio: ci campa de speranza desperatu more.
Cane bbinchiatu e musciu sfamatu: cane sazio e gatto affamato. Il cane e il gatto sono due animali necessari in ogni casa: il primo ci custodisce dai ladri, il secondo ci libera dai topi. Prudenza vuole, però, che si sappiano trattare anche gli animali, se si vuole da essi un servizio ben fatto. Il cane, perché serva bene, è necessario che si sazi, non lo si lasci morire di fame. Se è sazio si accovaccia vicino alla porta, di là non si muove, e vigila pronto a dare il segno d’allarme al più piccolo rumore: ma se sente i latrati della fame, abbandona la sua cuccia e scappa per procurarsi l’alimento necessario, conoscendo anch’esso che la fame è una bestiaccia con la quale non si scherza. Il contrario succede in rapporto al gatto. E’ necessario dargli da mangiare, ma non tanto da sfamarlo completamente, se no, vede il topo e, invece di ghermirlo e divorarlo, entra in familiarità e scioca (si trastulla) con esso, ciò che non succede quando il gatto è affamato, poiché allora, sapendo che il topo è un buon boccone, ghermirlo e divorarlo è per lui tutto un affare di pochissimo tempo.
Nunn essere throppu duce ca ognunu te suca, e nunn essere throppu maru ca ognunu te sputa: non essere troppo dolce che ognuno ti lecca, né troppo amaro che ognuno ti sputa. Gli estremi sono sempre viziosi: bisogna aver sempre presente il detto: incidit in Scyllam qui vult evitare Carybdim, e l’altro: medium tenuère beati, specialmente vivendo tra gente che di tutto abusa. La dolcezza e l’affabilità sono doti pregevolissime, ma chi è troppo dolce fa la fine del fiore cui le vespe succhiano il nettare dal calice e gli danno la morte. Le vespe sotto la forma umana succhiano alla borsa e al cuore di chi si dimostra dotato di eccessiva bontà; gli scaltri approfittano per mutarsi in piovre che sanno dove attaccare i loro tentacoli. E’ necessario, però, guardarsi dal cadere nell’eccesso opposto: è male esser troppo dolce, perché si procurano diverse noie, è male essere troppo amaro, perché si fa sempre la fine di certi oggetti, come il legno cassio, lo si può tollerare un pochino e poi lo si sputa.
Culle bbone tuttu se ottene: con le buone maniere tutto si ottiene. Molte cose non si ottengono, non già perché non si domandino, ma perché non si sanno domandare. Questo proverbio dovrebbero tenerlo a mente coloro che sono preposti all’educazione e al governo della società. I modi burberi, le parole aspre, il contegno superbo ottengono effetti contrari a quel che si desidera, inaspriscono gli animi, e, invece di sottomettere i ribelli, alienano l’aspetto dei buoni. Ecco perché il popolo, fedele ai suoi principii, è umile e mite; e tutto ottiene in grazia dei modi con cui comanda. Esso che sa che con le buone maniere tutto si ottiene, sa anche che ‘na bbona parola nu bbonu locu pija.
Amare e nunn essere amatu è tiempu perdutu: amare e non essere amato è tempo perso. L’amore esercita una doppia azione: diffusiva la prima, attrattiva l’altra, l’una difficilmente può stare senza l’altra, tutte e due si completano. San Gregorio scrisse: l’amore non tende a se stesso, ma perché sia definito tale, è necessario che si estrinsechi e tenda a un altro. Chi ama vuole essere corrisposto e riamato. Nella corrispondenza d’amorosi sensi, l’amore si sviluppa, si accresce: ma se l’amante si vede contraccambiato con glaciale indifferenza, è costretto a smettere e a rifare il cammino, perché il cammino già fatto fu tiempu persu.
Nu tte fidare né de carusu, né de pertusu: non ti fidare né del giovinetto, né del pertugio. Quando qualcuno commette un’azione, che vorrebbe rimanesse occulta, deve guardarsi dal commetterla innanzi a bambini (carusi) e deve essere guardingo perché qualcuno potrebbe spiare magari da un pertugio. L’adulto, malizioso, se lo vede, forse non parla, ma il bambino nella sua innocenza, neppure pensando di nuocere, manifesta a tutti ciò che ha veduto. Giuridicamente la testimonianza di un bambino non ha efficacia, ma conforta gli indizi che altri possano dare sul fatto. Quante testimonianze di bambini han posto i magistrati sulle tracce del reo!