L’infanzia
di Pippi Onesimo
Francesco (Chicco per gli amici, anche se quel diminutivo non gli era mai piaciuto) abbozzò appena un sorriso, quasi volesse schermirsi e mettersi al riparo da domande imbarazzanti, quando gli chiesi se potevo “annotare” qualcuno dei suoi ricordi che, di tanto in tanto, con malcelato pudore e con geloso riserbo, mi raccontava, mentre si faceva un giro “alla villa” in piazza Alighieri, quelle poche volte che si stava insieme, durante qualcuno dei suoi rarissimi ritorni a Galatina da una immensa città del Nord, dove viveva per lavoro, “lucente per ricchezza, ma desertificata negli affetti e nei sentimenti”, come spesso ripeteva.
Era una assolata estate del 1943, mi diceva, quando gli Alleati sbarcati in Sicilia ben presto si ritrovarono dalle nostre parti, preceduti da martellanti bombardamenti a tappeto, specialmente insistenti sugli aeroporti, come il “Cesari” di Galatina, sul quale volevano scatenare un fitto inferno di fuoco, ma per errore bombardarono Torrepinta, perché si diceva, fra il tragico ed il divertito, che avessero scambiato le “cucuzze pacce”, coltivate vicino al “Duca” (contrada rurale di Galatina, distante un paio di chilometri dal centro abitato), per elmetti di soldati nemici distesi per terra e mimetizzati fra le “chiasure” (terreno agricolo delimitato
tutto intorno da muretti a secco) di terra rossa.
Il tragico fu che una bomba, ad alto potenziale, cadde anche vicino alla “Distilleria”, fra l’attuale viale Ionio e la via per “lu Duca” a pochi passi dal centro abitato, ma senza, fortunatamente, procurare alcuna vittima.
Gli alleati, quindi, non trovarono alcuna resistenza, sia perché preceduti da intense incursioni aeree, sia perché la difesa a terra, almeno da noi, era rappresentata da ridicole e patetiche mitragliette, nascoste fra i muri a secco delle “chiasure” e puntate prevalentemente sulla direttrice della strada per Lecce, da dove si riteneva potessero arrivare i “nemici”; difatti da lì arrivarono, quasi tutti Polacchi, i quali, obbedendo a principi di ferrea logistica militare, occuparono palazzi, abitazioni capienti e anche il Convento dei Cappuccini (o quello che di esso era ancora rimasto, tanto per prolungare un’opera di devastazione, che, partita da lontano – circa due secoli fa –, fu continuata con la sua destinazione a “lazzaretto” e poi completata con il saccheggio dei soliti vandali, effettuato a volte, forse per “commissione” ricevuta, a volte per puro spirito di belluina violenza, dimostrando di essere, da sempre, i veri nemici della storia e delle proprie radici culturali.
Anche l’Amministrazione comunale, qualche anno fa, ci ha messo del suo: ha fatto divellere tutti gli antichissimi alberi di cipresso, che rendevano maestoso il lungo viale d’accesso, modificando anche la toponomastica stradale con l’apposizione di una targhetta, via dei platani, a testimonianza del suo misfatto).
I danni e le violenze furono inevitabili, in nome di una guerra mai voluta da nessuno (se non dalla megalomania di una mente devastata dalla follia di voler realizzare, per pura emulazione, una espansione imperialistica, tanto improbabile quanto assurda) e… di una conseguente “liberazione”, di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
Chicco, quella estate, aveva circa sei anni e abitava, sin dalla nascita, in una casa colonica vicina al “campo di battaglia”; ad ogni incursione aerea si nascondeva, come per gioco, in un campo di “vigne“ del proprietario confinante, dove, se non altro, poteva attendere che il lamento lugubre delle sirene avvertisse dello scampato pericolo, spiluccando, intanto, qualche acino di “ua rosa”, quasi acerba.
Intanto le invocazioni disperate di sua madre, intervallate da robuste “castime” (imprecazioni) per niente accattivanti di suo padre, tentavano di convincerlo a ripararsi tutti insieme in un improvvisato rifugio antiaereo, ricavato a ridosso di una cava di pietra, mimetizzato con “balle“ di paglia e ritenuto più sicuro, non a torto, degli “accoglienti filari di vigne”.
Suo padre lavorava a mezzadria un paio di ettari di terreno, intorno alla casa colonica, e una “tumanata” (misura terriera, variabile da 48 a 66 are) di vigne distante un paio di chilometri, dove si recava con lo “sciarabbà”, (carro di legno a due ruote) trainato da un cavallo dal mantello baio.
Il fondo della casa colonica, dove si coltivavano prevalentemente “foje” (rape, cicore, cavulifiuri, mùgnuli, verze, fanucchi, ecc.) e tabacco, fa parte di quel breve comprensorio, più propriamente detto “le sciardine“ (i giardini), che dalla “Vadea” (zona situata subito dopo il passaggio a livello della strada per Lecce) porta alla “Fasana”, alle “Funtaneddhre”, ai “Paravisi” (che di paradisiaco non hanno nulla, perché hanno ospitato fino a pochi anni fa i “campi di spandimento” della fognatura nera “a cielo aperto” – non so se, a tutt’oggi, sono stati ancora bonificati! – :essi rimangono comunque il segno e la testimonianza di una delle più scellerate soluzioni, ecologicamente delittuosa e assassina, mai escogitata da una pubblica amministrazione), per poi finire verso “lu Duca”.
Questo comprensorio è una fascia di terreno particolarmente fertile per la presenza, a breve profondità, di vene di acqua “surgiva”, che alimentano “fogge” e “puzzi” necessari per “bbivarare (innaffiare) le foje“ durante il periodo più secco e assolato, maggio-settembre, sino a quando, al maturare delle “side” (melagrane) e delle “fiche marangiane” (varietà pregiata di fichi, che maturano nel tardo autunno), non arrivano le prime piogge autunnali.
La casa colonica era composta da una piccola cucina, uno “stanzone–dormitorio” per tutta la famiglia ed una “ramesa”. Questa era una ampia costruzione rurale, coperta da un tetto di embrici poggiato su una serie di travi di legno, sulle quali, a distanza di circa 40 cm., erano infissi dei robusti chiodi per tenere sospesi per aria i “chiuppi”, cioè gruppi di corde di foglie di tabacco, già essiccate al sole e legate insieme in attesa di essere “ncasciate”, cioè riposte nelle casse di legno.
Nella “ramesa”, al riparo dal sole, si infilavano le “fujazze” (foglie) di tabacco (prevalentemente “perustizza, zzacuvina e anche santajaca”), servendosi di una “cuceddhra” (un ago piatto di ferro dolce, spesso un millimetro, largo due e lungo circa 40, alla cui estremità attraverso un foro era legato un filo di spago con “orecchietta”, lungo circa un metro: la cosiddetta corda di tabacco.
Qui si custodivano il fieno e gli attrezzi di lavoro, ma soprattutto si mettevano al riparo i “talaretti” (telaio di legno utilizzato per stendere al sole le corde di tabacco) impilati a catasta in caso di improvvisi acquazzoni; quando pioveva di notte e si operava la buio, era inevitabile che qualche talaretto si rompesse, trascinando nel fango le corde di tabacco; e allora accadeva che erano più le “castime” che salivano in cielo, che le gocce
d’acqua che scendevano in terra.
Al suo esterno, agli angoli più umidi rivolti verso “lu sciaroccu” (a Sud), crescevano indisturbate e abbondanti “marve e urtìche”, mentre i simpatici e allegri “scisciarìculi” (i fiori di camomilla) prediligevano i bordi duri e assolati in terra battuta del “vialone”, che dalla strada “sfaltata” portava alla casa colonica.
Nei campi, invece, in occasione del riposo del terreno per il cambio di coltura – agosto\ settembre – , spadroneggiavano con spavaldo rigoglio, fra i “trafi” (solchi tracciati con la zappa) di terra, “brucàcchia, riciteddhra, vasapiedi” (erbe selvatiche infestanti) e qualche “cardusantu” (cardo).
Dietro la casa c’era la “staddhra” (stalla) per il cavallo e due pecore ed una “suppìnna” (costruzione rurale con tetto di embrici spiovente, poggiato solo su tre muri rustici) per custodire la gabbia dei conigli, un numero variabile di galli (qualcuno, per le grandi occasioni, veniva sacrificato a tavola) e galline, di quelle autenticamente ruspanti, perché costrette per la fame a procurarsi il mangime da sole.
Solo durante i giorni piovosi o di particolare maltempo, Chicco aveva il compito, a lui solo riservato come un privilegio, di procurare la “brucàcchia e la riciteddhra” (erbe spontanee) per il pasto dei conigli, l’erba tenera per le pecore e la “canijata” (impasto di crusca di grano e di orzo) per galli e galline.
Questa ricchezza consentiva di barattare le uova e il latte con qualche lezione di doposcuola alla “méscia” (insegnante di doposcuola)… e finché le galline e le pecore collaborarono, quasi avessero stretto con lui un patto di mutuo soccorso, Chicco riuscì a superare anche gli esami di ammissione dalla quinta elementare alla scuola media.
Aveva undici anni, ma anche tante “paddhrotte” (zolle di terra dura e compatta) nel cuore, come lui diceva, per le umiliazioni e le ingiustizie, di cui cominciava, sin d’allora, a prendere coscienza e che ancora oggi non è riuscito a smaltire del tutto, tanto erano dure e aride: ma di queste, guardandomi con un velo di tristezza negli occhi, per il momento non mi volle più a lungo raccontare.
Gli feci un cenno di intesa.
Meritava ogni rispetto questo suo intuibile riserbo, a tutela dei propri sentimenti più intimi e delicati, o privacy per dirla con un odioso neologismo straniero, che non gradisco, come tanti altri, perché costituiscono autentiche umiliazioni ed immeritate offese alla nostra antica, nobile e bella lingua.