Operazione G. A. 3
di Salvatore Chiffi
Il comandante T.V. Junio Valerio Borghese diede l’ennesima occhiata al grosso orologio della sala manovra poi, finalmente, dopo ore di febbrile attesa, impartì l’ordine secco e perentorio: “Quota periscopio”. Alle ore 20.47 del 18 dicembre 1941 dalle oscure profondità del mare, a poche miglia dal porto di Alessandria d’Egitto, spunta silenzioso il periscopio di un sommergile.
È quello del sommergibile italiano Scirè, temutissimo dalle forze nemiche inglesi, che dopo aver controllato accuratamente che le acque davanti al porto fossero sgombre da navi nemiche, rilascia in mare 3 SLC, siluri a lenta corsa denominati comunemente “maiali”: sono il 221, 222 e 223, pilotati rispettivamente dal Tenente di Vascello Luigi Durand de La Penne coadiuvato dal Capo palombaro Emilio Bianchi, dal Capitano Genio Navale Antonio Marceglia con il Sottocapo Palombaro Spartaco Schergat e dal Capitano Armi Navali Vincenzo Martellotta con il Sottocapo Palombaro Mario Marino.
Le operazioni di rilascio dei tre mezzi vengono eseguite regolarmente, seppur con qualche difficoltà non prevista. Appena svincolati dal sommergibile vettore, i tre maiali si portano in superficie e, navigando in formazione affiancata, si dirigono senza esitazione verso i bersagli prefissati: le navi militari inglesi alla fonda nel porto di Alessandria.
Dopo circa un’ora di navigazione, i sei incursori sono in prossimità della costa, riconoscono il palazzo reale e, navigando in prossimità della scogliera, proseguono sino ad arrivare al traverso di Ras El Tin. Alle 23.00 navigano in prossimità del molo esterno del porto.
Procedendo sempre in superficie si avvicinano così tanto alla diga foranea, da sentire persino il parlottare delle sentinelle, che vigilano sull’ingresso del porto e notare che una di loro va su e giù lungo la diga foranea con una lampada a petrolio, illuminando di tanto in tanto la superficie del mare e qualche anfratto nella scogliera.
La vigilanza è anche effettuata da un motoscafo che, navigando lentamente in prossimità del molo, lancia in mare, ad intervalli regolari, alcune bombe per dissuadere eventuali mezzi insidiosi, ma ormai il dado è tratto e i sei impavidi perseverano nella loro missione.
“Accertata presenza in porto due navi da battaglia. Probabile portaerei. ATTACCATE”. Questo era l’ordine inequivocabile che avevano ricevuto da Supermarina.
Inaspettatamente i fanali che delimitano i canali navigabili per l’ingresso e l’uscita dal porto si accendono. Tre cacciatorpediniere sono prossimi ad uscire dal porto. Sicuramente, pensano i sei arditi, il motoscafo di sorveglianza si farà da parte per non ostacolare le navi in transito e le reti che costituiscono lo sbarramento del porto saranno abbassate. L’occasione è ghiotta, bisogna approfittare della momentanea apertura e cercare di passare tra le navi in transito col rischio di essere speronati e nella speranza di non essere visti dal personale di bordo impegnato al posto di manovra.Come previsto, il motoscafo si fa da parte e i tre mezzi, navigando immersi a pelo d’acqua soltanto con la testa del pilota fuori dall’acqua, senza autorespiratore, passano tra i tre cacciatorpediniere in uscita. Le onde provocate dal passaggio delle navi sballottano i tre maiali che perdono il contatto tra loro, ma la rischiosa manovra ha successo e passano indenni.
De La Penne chiama in superficie il suo compagno Bianchi: “Tutto bene?” – “Si” – “Hai paura” – “Si” – “Anche io. Andiamo” e decisi a tutto, costeggiando i frangiflutti alla distanza di un metro per sfruttare al meglio la zona d’ombra, i due si dirigono verso l’obbiettivo.
Superati senza essere visti due incrociatori ormeggiati di poppa e la nave “Lorraine”, finalmente De La Penne avvista la grande sagoma scura del suo bersaglio. E’ la corazzata “Valiant”. Una nave da 27.000 tonnellate armata con 42 cannoni di vario calibro, 58 mitragliere antiaereo e 4 tubi lanciasiluri sommersi.
De La Penne pilota il suo siluro a pelo d’acqua attraverso una zona illuminata sempre con la sola testa fuori dall’acqua sino a portarlo in direzione del centro nave, ma a 50 mt. dalla meta incappano in un ostacolo imprevisto: una rete di corda sorretta da una miriade di boe in metallo distanziate mezzo metro una dall’altra e un cavo d’acciaio. Con l’aiuto di Bianchi effettua alcuni tentativi di alzare la rete e passarci sotto. Niente da fare, la rete, ancorata pesantemente sul fondale, non si alza. Bisogna trovare un varco, un passaggio più facile.
L’incursore dirige il mezzo verso la prora della corazzata trovando alcune boe leggermente più distanti fra loro. Bisogna passare sopra il cavetto e la rete cercando di non urtare le boe per non fare rumore.
Il passaggio, purtroppo, crea degli inconvenienti: l’elica del maiale rimane impigliata nel cavetto d’acciaio che sorregge la rete e alcune maglie della rete stessa. De La Penne e Bianchi riescono a liberare a fatica il mezzo e si rimettono in rotta dopo essersi immersi ad una profondità di 7 mt.
Qualche minuto dopo il mezzo urta la carena e, sbandando da un lato, si allaga e precipita sul fondo. De La Penne è costretto a risalire in superficie per controllare la sua tenuta; da quando è fuoriuscito dal sommergibile la sua muta stagna ha fatto acqua, è bagnato e intirizzito dal freddo. Ripreso il pieno controllo della situazione ridiscende sul fondo melmoso e cerca di rimettere in moto il siluro. Non parte. Si dirige a tentoni verso la parte poppiera del mezzo e solo allora si accorge che il suo secondo uomo, Bianchi, non è più con lui. Nel suo rapporto personale sulla missione De La Penne scriverà… “Ritengo che non debbo lasciare a galla il palombaro perché sarebbe un segno troppo evidente della nostra presenza e, considerando che se a bordo fosse stato dato l’allarme, sarei stato danneggiato dalla eventuale reazione, e quindi sarei stato costretto ad innescare le spolette per il minimo tempo possibile al fine di fare almeno qualche danno, decido di salire a galla per recuperare Bianchi. A circa 4 mt. sono illuminato da un riflettore. Continuo a salire. Arrivato in superficie, sempre nella luce del riflettore,non vedendo il palombaro e notando che a bordo regna la calma assoluta,decido di portare l’apparecchio sotto la nave.
Mi immergo nuovamente e vado all’elica dell’apparecchio per tentare di liberarla. Un cavo di acciaio vi si è incattivato e non mi è possibile toglierlo. Siccome l’apparecchio non si muove, lo alleggerisco e tento di muoverlo portandomi sul fango e lavorando con le due mani sul parabrezza.
L’apparecchio si muove di qualche centimetro ma non riesco a leggere la bussola a causa delle nubi di fango che sollevo dal fondo lavorando. Sento il rumore di una pompa alternativa e cerco di dirigermi verso di essa ritenendo che potrò dirigermi con sufficiente esattezza guidato dal rumore che produce.
Gli occhiali sono appannati e non vedo più nulla. Mi fermo e tento di pulire gli occhiali allagando la maschera, poi tento di scaricare l’acqua ma non ci riesco. Devo berla. Ricomincio a trascinare l’apparecchio. Sono tormentato dal pensiero di come potrò fare il lavoro in carena. In quel momento mi sembra di non poter continuare per l’eccessiva fatica e per l’affanno e di dovere quindi andare a galla. La vicinanza del bersaglio però mi da la forza, non sono preoccupato per le bombe, ma solo del riposo per un paio di minuti.
Il rumore della pompa è ora più forte. Ricomincio a trascinare l’apparecchio e sento che mi avvicino a causa dell’aumentare dei rumori provenienti da bordo. Gli ultimi metri sono i più duri, lavoro meccanicamente senza capire dove vado e cosa faccio. Sono trascorsi 40 minuti da quando ho iniziato. Finalmente urto lo scafo della corazzata con la testa. Metto immediatamente in moto le spolette per evitare che qualche bomba mi impedisse di terminare la missione e ricomincio a trascinare l’apparecchio fino al completo esaurimento delle forze.
Copro il cruscotto con il fango per impedire che la sua luminosità possa indicarne la presenza e mi porto a galla lungo lo scafo. Mi tolgo l’autorespiratore e, dopo averlo affondato, cerco di allontanarmi, ma dopo dieci metri le urla provenienti da bordo e una raffica di mitra me lo impediscono. Ritorno quindi verso la nave dirigendomi verso prora. Lì trovo Bianchi che mi dice di essere svenuto e di essersi ripreso in superficie. Lo informo che le spolette sono in moto. Intanto da bordo i marinai inglesi ci irridono pensando che la nostra missione sia fallita: parlano di italiani. Faccio notare a Bianchi che, se aspettano un paio d’ore, avranno una diversa considerazione per gli italiani”.
I due sabotatori vengono prontamente raggiunti da un motoscafo inglese con alcuni soldati armati che li issano a bordo (sono circa le 04.00 del mattino e hanno trascorso in acqua poco più di sette ore), li sottopongono a perquisizione, li privano dei loro orologi subacquei, controllano se sono armati e quindi li portano sulla Valiant perché siano interrogati. Inutilmente. Dalla bocca dei due italiani non una parola sullo scopo della loro missione. Il comandante della nave, Charles Morgan, chiede più volte ai due dove hanno piazzato l’esplosivo, poi, davanti all’ostinato silenzio dei due prigionieri, ordina che siano rinchiusi in un locale a prora e sottoposti a sorveglianza armata.
Quando De La Penne si rende conto che mancano una manciata di minuti all’esplosione, chiede alla sentinella di essere portato al cospetto del comandante. Viene subito accompagnato a poppa alla presenza del comandante Morgan, al quale rivela che mancano pochi minuti all’esplosione e che poteva approfittarne per mettere in salvo l’equipaggio.
Il Comandante, stizzito, ordina che sia riportato nella cala adibita a cella e, mentre De La Penne attraversa sotto scorta la nave, sente gli altoparlanti impartire l’ordine a tutto l’equipaggio di recarsi a poppa perché la nave era stata attaccata dagli italiani.
Bianchi era stato portato via dalla cella improvvisata. De La Penne è solo quando qualche minuto dopo la carica esplode proprio nelle vicinanze del locale dove era stato rinchiuso. Non ha riportato ferite, e fortunosamente risalendo al buio la scaletta, trova il portellone aperto. Si dirige verso poppa dove tutto l’equipaggio era radunato e stava ricevendo gli ordini necessari per tentare di salvare la nave che, sbandando a sinistra di 5/6 gradi, affonda inesorabilmente adagiandosi sul fondale di 17 mt. lasciando emersa solo la parte poppiera e i ponti superiori.
Al suo passaggio i marinai inglesi che qualche ora prima lo avevano deriso si alzano in piedi in segno di rispetto e riconoscenza, perché avvisando il Comandante della imminente esplosione ha evitato che ci fossero vittime. Raggiunto il Comandante Morgan, gli chiede di Bianchi. Non ottiene risposta e gli ordinano di tacere. Va quindi verso poppa estrema e si mette a guardare verso la “Queen Elizabeth” ormeggiata a qualche centinaio di metri.
Passa qualche minuto e la “Queen Elizabeth” salta in aria. Subito dopo una seconda esplosione coinvolge la nave cisterna “Sagona” e il caccia inglese “Jervis”. L’azione degli altri due “maiali” ha avuto successo; la missione dei sei uomini è stata portata a termine.
Qualche giorno dopo Winston Churchill riferirà al Parlamento inglese che: “…sei italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l’equilibrio militare in Mediterraneo a vantaggio dell’Asse”
Al termine del conflitto, il comandante Charles Morgan, divenuto Ammiraglio, chiese al governo italiano l’onore di appuntare personalmente sul petto di Luigi Durand De La Penne la medaglia d’oro al valor militare a lui concessa per l’azione di Alessandria, intendendo così “esprimere il suo cavalleresco compiacimento e quello della Marina britannica a tutti gli assaltatori e a tutti i marinai italiani che con onestà profonda e grande eroismo hanno cercato di servire nel miglior modo possibile il loro Paese”. •